Un percorso di lettura sul controllo operaio non può prescindere dall’analisi dell’evoluzione dei consigli di fabbrica. Il primo è un processo politico, i secondi sono le istituzioni attraverso cui storicamente questo processo ha provato a dispiegarsi, gli “embrioni di un futuro stato operaio”. Due cose distinte, dunque, ma da trattare congiuntamente. Soprattutto se l’obiettivo con cui lo si fa è storico e analitico, ovvero rintracciare quali sono state le condizioni specifiche che hanno portato all’esigenza di teorizzare il controllo operaio, comprenderne i limiti e le potenzialità per noi oggi. Le letture che proponiamo sono di varia natura: articoli di analisi politica, lettere, estratti di programmi frutto di assemblee interne, appelli dal forte contenuto propagandistico. Non rappresentano un corpo omogeneo di testi, dunque. Sono stati selezionati perché considerati passaggi chiave di momenti cruciali della nascita e dello sviluppo dei consigli di fabbrica. Ci concentriamo soprattutto sulla parte gestazionale dei consigli, mettendo in secondo piano l’analisi del loro declino. Non certo perché sia meno importante, ma perché è proprio negli intenti originari che si celano riflessioni importanti alla comprensione del controllo operaio. Non c’è pretesa di esaurire tutto quello che sarebbe importante dire sul tema, ma poiché il nostro obiettivo non è filologico ma politico, lo facciamo con l’intento di dotarci di strumenti utili alle lotte di oggi e di domani.
La rassegna che segue sarà divisa in due parti: una prima relativa alla nascita dei consigli di fabbrica in Italia e un’altra parte relativa alle traiettorie dei consigli di fabbrica in Europa, in particolare in Russia e in Inghilterra. I materiali riguardanti l’Italia provengono principalmente dall’Ordine Nuovo, il giornale fondato da Gramsci, Togliatti e Tasca, pubblicato per la prima volta il Primo Maggio 1919. Nonostante il gruppo facesse ancora parte del Partito Socialista, questa rivista settimanale diventò presto la piattaforma di analisi dei comunisti torinesi nonché l’organo propagandistico e di formazione operaia che ha dato origine ai consigli di fabbrica. Gran parte della ragione d’essere, delle prospettive e degli ostacoli vissuti nei e dai consigli possono senz’altro essere trovate nelle pagine dell’Ordine. In questo giornale sono pubblicati anche molti dei testi che proponiamo per la seconda parte della rassegna. Essi si riferiscono all’esperienza russa e inglese, sicuramente fra le più rilevanti per la costruzione dei consigli di fabbrica italiani o quantomeno che allora furono giudicate dirimenti. Ci sembra importate mettere a critica queste esperienze non solo perché hanno in larga parte ispirato i quadri politici italiani, ma ci aiutano a decifrare la parabola percorsa dalle nostre organizzazioni operaie nei primi decenni del Novecento. Un’operazione forse preliminare, ma necessaria.
L’operazione che ci proponiamo è complessa poiché un dibattito sul controllo operaio è pressoché assente in larga parte delle organizzazioni della sinistra radicale. Viene spesso evocato come orizzonte immaginifico, senza interrogarsi troppo sulle condizioni storiche che lo hanno prodotto, sul ruolo che avrebbe dovuto giocare nel progetto rivoluzionario o su come debba strategicamente declinarsi oggi. Concettualmente, dunque, non si fa troppa distinzione fra controllo operaio, stato operaio, democrazia proletaria, collettivizzazione dei mezzi di produzione. Ripercorrere le prime fasi della nascita e dello sviluppo dei consigli di fabbrica può essere un’utile chiave di accesso verso questo necessario lavoro teorico e politico.
La nascita dei consigli di fabbrica
I consigli di fabbrica vengono riconosciuti formalmente dalla camera del lavoro di Torino nel dicembre del 1919. Nei mesi che hanno preceduto questa approvazione formale, e in quelli immediatamente successivi la forza di queste organizzazioni interne alle fabbriche torinesi era indiscutibile. La loro capacità di mobilitazione era altissima, e si irradiava ben al di fuori dei luoghi di lavoro degli operai. Già nel marzo del 1920 il consolidamento dei consigli veniva vissuto dalla classe patronale come una minaccia a cui porre fine il prima possibile. Insomma, una crescita esponenziale e sorprendente, spinta senz’altro anche del vento rivoluzionario che stava soffiando in tutta Europa. La nascita dei consigli si configura non tanto come un’evoluzione, quanto come un repentino cambiamento dei rapporti di forza all’interno di organizzazioni già esistenti e tutt’altro che rivoluzionari: le commissioni interne. Queste commissioni furono il primo organismo di rappresentanza operaia nei luoghi di lavoro, ottenute tramite un accordo fra Fiom e l’associazione patronale metalmeccanica. Una concessione della borghesia che aveva lo scopo di incanalare verso derive riformiste la pressione che stava montando nel corpo operaio per la formazione di consigli operai del tutto simili ai Soviet russi. Sebbene si configurassero come costole dell’apparato sindacale, le commissioni avevano comunque aperto delle brecce nel meccanismo autoritario della fabbrica. Su queste brecce sarebbe stato poco dopo possibile insistere a livello propagandistico per creare i consigli di fabbrica. Un ruolo decisivo in questo passaggio è stato giocato dai quadri comunisti militanti nel Psi e raccolti attorno all’Ordine Nuovo, un giornale fondato quasi solo con lo scopo di radicalizzare quanto più possibile nei quadri e negli operai l’esigenza di una vera e propria democrazia operaia.
Dai testi che proponiamo emergono tre punti fondamentali nella traiettoria iniziale dei consigli e che appaiono quanto mai decisivi per noi oggi.
Il primo punto riguarda il ruolo giocato dalle burocrazie sindacali nei tentativi di organizzazione della classe e, più in generale, in tutti i processi rivoluzionari. Le resistenze più grandi alla formazione dei consigli non furono quelle della classe patronale in sé per sé (resistenza naturale), ma dalle direzioni delle organizzazioni sindacali esistenti che tutto sommato si inscrivevano nel parlamentarismo borghese che li ha prodotti, ritagliandosi uno spazio di agibilità e rinunciando a qualsiasi tentativo rivoluzionario. Quest’azione riformista del sindacato è stata interpretata dai teorici politici del controllo operaio non come una fase contingente ma come una caratteristica intrinseca del sindacato, proprio perché esso nasce e si sviluppa da esigenze borghesi. Basta guardare le rivendicazioni tipiche del sindacato, che riguardano aumenti salariali o diminuzioni nell’orario di lavoro ma che restano sempre radicate nell’assetto societario e produttivo di tipo capitalista. Anche nell’approccio il sindacato è opposto ai consigli di fabbrica. Il primo non può prescindere dall’organizzazione degli operai sulla base del mestiere e della mansione svolta, il secondo riconosce come nucleo dell’organizzazione il luogo di lavoro e ambisce a mettere in relazione profili diversi accomunati dall’essere fisicamente presenti là dove il processo produttivo si spiega: la fabbrica geograficamente collocata, fatta di ingranaggi concreti, di officine e materie prime.
. Negli appelli propagandistici pubblicati sull’Ordine Nuovo, emerge l’assoluta necessità di radicalizzare l’obiettivo e al tempo stesso la tattica. Ma si pone a più riprese anche un altro punto: non è possibile pensare il superamento dello Stato borghese solo come presa del potere. Già da subito la classe operaia deve porsi due problemi: con quali forme organizzative sostituire lo stato e il suo parlamentarismo e radicalizzare nella coscienza della classe la democrazia operaia. La questione della democrazia dell’organizzazione interne ai consigli non è affatto secondaria né tantomeno da relegare a un mero fatto di metodo. In questo senso, non si può pensare di praticare una rivoluzione formale e procedurale senza che essa sia sostanziale, interamente assunta dalla coscienza collettiva. E come viene detto a più riprese, il partito è depositario della dottrina, ma solo dal basso può avvenire questa presa di coscienza.
Terzo punto: la necessità di saper distinguere obiettivi parziali e conquiste rivoluzionarie. Obiettivo che può apparire semplice con l’occhio della storia, ma che molto meno lo è quando si è immersi nei processi. Lo stato socialista non può che essere una fase intermedia verso il superamento del capitalismo. Un passaggio necessario da compiere sulle ceneri dello stato democratico-parlamentare ma pur sempre un passaggio provvisorio, destinato ad estinguersi. La fine dei consigli di fabbrica può essere in larga parte ascritta al tradimento oggettivo delle direzione del Partito socialista e della CGIL, e in parte all’incapacità di comprendere cosa rappresentassero queste istituzioni della classe operaia rispetto all’interezza del processo rivoluzionario. Questa confusione teorica e politica ha determinato una crescente radicalizzazione delle intenzioni e degli obiettivi senza che si radicalizzasse la tattica. Dai testi che proponiamo emerge con chiarezza l’importanza di approcciarsi alla lotta operaia come un processo complesso non solo nel suo sviluppo, ma anche nella sua interpretazione. Un processo anche composito, che non può che dispiegarsi simultaneamente, in più luoghi e su più dimensioni: nella strategia politica dei quadri politici e intellettuali e nella coscienza della classe.
I consigli in Europa
I mesi che hanno preceduto la formazione dei consigli di fabbrica sono stati spinti anche e soprattutto dalla testimonianza di esperienze simili in altri Paesi europei. Sull’Ordine Nuovo furono pubblicate e commentate numerose testimonianze sia sulle forme organizzative inglesi sia sul processo di nascita dei Soviet russi. La speranza degli ordinovisti era che le testimonianze internazionali servissero da ispirazione alla strategia delle nascenti organizzazioni operaie. L’obiettivo non era dunque quello di fornire un modello da ricalcare, quanto quello di far emergere la tensione finale delle organizzazioni internazionali, ovvero dare corpo e testa alla spinta di mobilitazione dal basso, unico vero argine alle derive riformiste e forza promotrice dei processi storici. I testi che proponiamo sottolineano bene i contesti specifici nei quali Soviet e consigli operai inglesi si sviluppano ma sono interessanti per qualcosa di più.
Anche nella Russia rivoluzionaria il tema del controllo operaio era tutt’altro che pienamente sviscerato nonostante si fosse in piena rivoluzione. Basterebbe questo a dare la misura della sua complessità. Sebbene il processo produttivo fosse gestito dal consiglio operaio, resistevano molte e non secondarie scorie dell’assetto capitalista. Per esempio, molte fabbriche erano ancora di proprietà di industriali privati e questo . Sebbene sia la coscienza operaia che la preparazione tattica e strategica dei quadri fosse molto avanzata, non era ancora il momento per il passaggio definitivo (che poteva avvenire solo sotto la forma della requisizione delle fabbriche). Finché la capacità produttiva della gestione operaia non fosse arrivata al pari delle altre potenze capitaliste, si sarebbe dovuti permanere ancora in una fase transitoria. Non per incapacità della classe ma per fattori oggettivi che dovevano avere tempo e spazio per ribaltarsi. A frenare questo ribaltamento, ancora una volta, sono state le burocrazie sindacali. In un certo senso i consigli di fabbrica nella russa rivoluzionaria rappresentavano un’organizzazione temporanea e pre-rivoluzionaria, piuttosto che la forma definitiva di cui avrebbe dovuto dotarsi la classe operaia una volta preso il potere. Questo ci pone di fronte all’importanza di calare sempre il processo rivoluzionario all’interno del contesto internazionale politico e produttivo generale, accettando che le particolarità delle fasi storiche costringono a cambiare, anche di molto, le strategie.
La stessa cosa, ma in forme diverse, emerge nell’analisi della situazione inglese. I tentativi di controllo operaio in Inghilterra non si svilupparono da una fronda più politicizzata del sindacato. Questo era dovuto anche allo spirito profondamente corporativistico e parlamentarista che pervadeva i lavoratori e i loro quadri sindacali. Lo spazio per la radicalizzazione poteva solo venire da fuori, da movimenti non intercettati e riducibili alle strutture dello stato capitalista. Lo scontro diretto non era dunque tanto con la dirigenza industriale, quanto con le istituzioni statali che, insieme alle organizzazioni sindacali, promossero uno spirito inter-classista per garantire la continuità della produzione bellica, raccontata come un’operazione necessaria. Non a caso, le opposizioni più grandi a questa narrazione e alle decisioni politiche conseguenti (per esempio la sospensione delle leggi protettrici del lavoro e degli scioperi) vennero al di fuori delle organizzazioni sindacali, dai minatori del Galles e dagli operai delle officine navali della Clyde. Questa spinta, spontanea, non fu sostenuta minimamente da segretari e funzionari.
Gli scioperi che seguirono furono potenti e costruttivi: radicalizzarono nella classe la convinzione che nessun avanzamento fosse possibile tramite la negoziazione tra vertici e che il protagonismo dovesse essere organizzato a partire dalla base. E che, anche in questo caso, il nucleo non fosse il mestiere ma l’officina, lo spazio fisico nel quale la classe si trovava. Solo questi nuclei (e non gli operai) potevano essere serrati insieme da un approccio federale. Anche in Inghilterra, come in Italia e in Russia, mentre si impone il tema della gestione della fabbrica, si impone anche quello del “fuori” della fabbrica. Non solo perché il sistema capitalista non si limitava alla gestione della fabbrica, ma pervadeva e organizzava in modo capillare terreni e spazi urbani. Nell’appello del gruppo dirigente di Ordine Nuovo per la partecipazione al Congresso dei Commissari di reparto (esecutivo dei consigli di fabbrica) ci si rivolse principalmente ai “lavoratori compagni e ai contadini” chiamati in causa perché “anche voi siete oppressi dallo stesso pesante ordinamento capitalistico che gli operai vogliono spezzare”. Da un certo punto di vista, la classe operaia fu riconosciuta come responsabile del processo rivoluzionario non tanto perché figura indispensabile alla messa a valore capitalista nel processo produttivo, ma in quanto parte già cosciente e organizzata di una classe ben più vasta e varia di quella presente nelle fabbriche.