Il 17 gennaio 1991 la CNN mostra al mondo i primi bombardamenti di Baghdad ad opera dell’aviazione americana. Scoppia la prima guerra del Golfo, la prima in mondovisione, destinata a cambiare per sempre la nostra percezione del conflitto bellico. Per la prima volta nella storia umana è possibile vedere con i propri occhi gli orrori delle guerre imperialiste a qualsiasi latitudine, orrori che le trasmissioni televisive rappresentano come un videogioco.

A distanza di 30 anni, quella guerra rappresenta il primo tassello dell’attuale declino dell’imperialismo americano in Medio Oriente.

 

Un deserto imperialista

Le radici dell’invasione americana vanno ricercate nel conflitto tra Iran e Iraq scoppiato nel 1980. E’ un conflitto imperialista, esattamente come lo sarebbe stato quello ai danni dell’Iraq 11 anni dopo, combattuto dall’Iraq contro l’Iran di Khomeini per il dominio del Golfo Persico. Il conflitto, che si concluderà 8 anni dopo con un milione di morti, non porta a un cambiamento formale degli equilibri della regione ma rappresenta di fatto una guerra per procura, con l’Iraq che riprende le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti (interrotte dal 1983) e ne acquista armi e mezzi e l’aiuto diretto a Saddam Hussein dato dall’Unione Sovietica, che vedeva nel conflitto la possibilità di arginare il peso che il fondamentalismo islamico stava prendendo nella regione in chiave anti-comunista.

Questo scacchiere dimostra esattamente quello che intendeva Lenin quando spiegava come l’imperialismo fosse innanzitutto un fenomeno economico, ma non meccanicamente riducibile a sole cause economiche.

Nel 1914, Lenin spiega esattamente quali siano gli obiettivi delle grandi aziende capitalistiche (quelle che oggi chiameremmo multinazionali) rispetto alle risorse del mondo. Esse non vedono confini, perché il capitale finanziario non ne ha:

La caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. […] Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono domani esser messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati impiegati più forti capitali.

Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di questa o quella materia prima, ecc. Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale. Nello stesso modo che i trust capitalizzano la loro proprietà valutandola due o tre volte al disopra del vero, giacché fanno assegnamento sui profitti “possibili” (ma non reali) del futuro e sugli ulteriori risultati del monopolio, così il capitale finanziario, in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio è possibile, comunque e dovunque, in cerca soltanto di possibili sorgenti di materie prime, con la paura di rimanere indietro nella lotta furiosa per l’ultimo lembo della sfera terrestre non ancora diviso, per una nuova spartizione dei territori già divisi. [1]

Quanto avviene nel Golfo sia prima che dopo la guerra lanciata dagli Stati Uniti è esattamente una combinazione dialettica della necessità di difendere gli interessi economici dei regimi capitalistici in campo e del controllo militare di queste fonti di reddito. L’Iraq e l’Iran ne avevano nella regione tante quante ne avrebbero avute gli Stati Uniti 11 anni dopo, nel 1991.

La mossa militare di Saddam Hussein serve a impedire che si consolidi un equilibrio nel Medio Oriente, così da indebolire tanto l’influenza americana quanto quella delle monarchie del Golfo. L’Iraq ne esce devastato: oltre alla conta dei morti, è sopraffatto dai creditori per oltre 90 miliardi di dollari[2], gran parte dei quali spesi in armamenti. Il Kuwait è uno dei maggiori creditori. Quando nel luglio 1990, insieme agli Emirati, raddoppia la produzione di greggio per abbassarne il valore e mantenere alto il credito verso l’Iraq (la cui unica e principale fonte di ricchezza è il denaro ricavato dalla vendita di petrolio), l’Iraq lo considera un gesto ostile e invade il Kuwait il 2 agosto 1990.

 

L’Onu: la diplomazia a disposizione del denaro

La guerra del Golfo scoppia sul piano diplomatico, tra agosto a gennaio dell’anno successivo, prima di coinvolgere gli eserciti. Gli Stati Uniti cercano e ottengono l’approvazione dell’Onu. Prima ancora di dichiarare guerra sul campo con l’Operazione Desert Storm, l’Onu era già a disposizione con la più importante manovra di posizionamento logistico nella regione, un’operazione denominata Desert Shield.

L’Onu, da sempre un tavolo tra potenze imperialiste che serve fondamentalmente a gestire per via diplomatica i conflitti prima che divengano armati, viene utilizzata dagli Stati Uniti come camera di approvazione dell’intervento militare. Quando 12 anni dopo gli Stati Uniti invaderanno nuovamente l’Iraq lo faranno con una propria coalizione dopo non esser riusciti a trovare un accordo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Il 29 novembre 1990 il Consiglio di sicurezza approva la risoluzione 678 con cui si sancisce l’obiettivo di far ritirare l’esercito iracheno dal Kuwait “con ogni mezzo necessario” e si impone un ultimatum al 15 gennaio 1991. L’Unione Sovietica è in disfacimento e ha bisogno di finanziamenti liquidi immediati: ne ottiene circa 4 miliardi dall’Arabia Saudita su intercessione americana e vota a favore. La Cina si astiene dietro la promessa di ottenere una normalizzazione dei rapporti diplomatici dopo l’isolamento di 18 mesi per la repressione della rivolta di piazza Tienanmen[3].

Solo due paesi votano contro: lo Yemen, unica repubblica fresca di unificazione, e Cuba. Il primo paese pagherà a caro prezzo questa opposizione, con il ritiro formale di tutti gli aiuti dell’FMI [4]. Cuba è tutt’ora un paese accusato di terrorismo[5].

 

30 anni di conflitti

L’obiettivo è recuperare il pieno controllo dell’estrazione petrolifera e della conduzione commerciale marittima sul Golfo Persico.

Il conflitto dura 43 giorni. L’aviazione Usa e alleata sgancia sull’Iraq 250mila bombe attraverso 110mila attacchi, impiegando 2800 aerei. Vi partecipa anche l’Italia, interessata a tutelare la propria presenza petrolifera nel Golfo, con 12 aerei Tornado e 226 sortite. Spaventato dal vuoto politico rappresentato dall’eventuale caduta di Saddam Hussein, il presidente Bush si rifiuta di entrare a Baghdad: uno scrupolo che l’imperialismo USA non si sarebbe fatto anni dopo e che avrebbe condannato il Medio Oriente a un presente di balcanizzazione e instabilità.

La guerra del Golfo inaugura anche una stagione di mobilitazioni contro la guerra con una manifestazione di 20mila persone a Roma, il 18 gennaio 1991, che chiede di fermare immediatamente il conflitto e il ritiro del contingente italiano [6].

Mentre gli intellettuali liberali ancora festeggiavano per la caduta del muro di Berlino e il disfacimento dell’Unione Sovietica, il mondo appena entrato “nella nuova era della speranza”, per citare le parole del discorso di Bush che sanciva l’entrata in guerra degli Stati Uniti, si buttava a occhi bene aperti in un futuro di instabilità e guerre condotte per il dominio territoriale ed economico. Il Medio Oriente non sarebbe stato altro che il banco di prova di un futuro che ora, con la disintegrazione di Iraq, Afghanistan, Siria e Libia, è divenuto un presente incontrollabile.

 

Note:

[1] L’imperialismo, fase suprema del capitalismo – Lenin 1914

[2] Dal 1991 di Bush sr a Joe Biden: il Golfo non si tocca, mai – Alberto Negri – Il Manifesto (15 gennaio 2021)

[3] Uno spartiacque epocale, solo due paesi si opposero – Marinella Correggia – Il Manifesto (15 gennaio 2021)

[4] Ibidem

[5] https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2021/01/11/trump-rimette-cuba-tra-gli-stati-sponsor-del-terrorismo_9db76d09-a8d3-4590-a63c-e89c39ab5e69.html

[6] Roma non si arruola – Il Manifesto (18 gennaio 1991)