Introduzione – L’odio nazionalista ha molti padroni

30 anni fa, il 25 giugno 1991, la Slovenia dichiarava l’indipendenza dalla Jugoslavia.

Nel giro di pochi mesi sarebbero seguiti i tentativi di Croazia, Macedonia e Bosnia, ciascuno dei quali sarebbe stato invaso dall’Armata jugoslava, prevalentemente sotto il controllo serbo. La guerra balcanica che ne seguì sarebbe durata fino al 1995 sebbene gli avvenimenti in Kosovo di 4 anni dopo non siano stati che un’espansione dello stesso processo: un conflitto tra nazionalità che il declino del socialismo burocratico aveva innescato, ma che il capitalismo non poteva risolvere.

Alla separazione, nel giugno 1991, della Slovenia – con un blitz politico e militare – seguì immediatamente il riconoscimento dei principali paesi europei, a partire da quella Germania che aveva in Slovenia quote importanti delle proprie esportazioni e che, dal crollo del muro di Berlino di 2 anni prima, guardava all’Europa come un nuovo terreno di conquista economica. L’avrebbe conseguita pochi anni dopo con la moneta unica.

Sull’onda lunga della separazione slovena, nel 1992 la Croazia di Franjo Tudjman reclamò l’indipendenza, seguita alla fine dell’anno dal tentativo del bosniaco musulmano Izetbegovic di ottenere lo stesso per la Bosnia.

L’anno successivo l’Armata jugoslava, diretta dal principale dirigente serbo Slobodan Milosevic, avviò l’assedio di Sarajevo, capitale multiculturale di una Bosnia prevalentemente bosgnacchi, seppur con un’ampia minoranza serba e una più piccola croata. Il terribile assedio funse da diversivo militare per creare un corridoio che potesse unire Serbia e un tratto di costa croata, ottenuto con una sanguinosa pulizia etnica eseguita da bande di paramilitari di destra. Contemporaneamente, con un’abile regia, i nazionalisti serbi di Bosnia capitanati da un incontrollabile Radovan Karadzic proclamarono una repubblica locale che servisse a legittimare lo smembramento bosniaco.

In poco tempo il presidente croato Franjo Tudjman trovò un accordo con il serbo Milosevic per strappare un pezzetto di Bosnia attraverso la minoranza croata locale diretta da Mate Boban, iniziando un doppio gioco alle spalle dei musulmani, formalmente in supporto e nella realtà traditi e costretti a resistere a un assedio militare che sarebbe durato 3 anni.

In questo lago di sangue che attraversò città, boschi e vallate, si sparsero le carte delle risoluzioni dell’ONU e i contingenti dell’UNPROFOR, impassibili al massacro di popolazioni inermi (di croati e musulmani ad opera dei serbi e di serbi ad opera prevalentemente degli ustascia croati), nonchè le manovre delle principali potenze internazionali, restìe a intervenire in un paese privo di petrolio come il più piccolo e ricco Kuwait.

Ferma in un totale empasse militare, preda di manifestazioni di massa in tutta la Serbia, la guerra offrì la possibilità alle manovre militari della NATO per bombardare nel 1995 le postazioni militari dei serbi di Bosnia suggellare militarmente la paternità dell’imperialismo americano sui colloqui di pace di Dayton.

Ma sarebbe una lettura riduttiva e non per la sua aridità emotiva.

I conflitti nei Balcani portarono il racconto della guerra nelle case di milioni di europei dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ancor più della prima guerra del Golfo, i televisori di tutto il mondo mostrarono combattenti in jeans e maglietta sparare da strade che sarebbero potute essere le nostre. Colonne di profughi in fuga dalla Slavonia o dalla Krajina mostravano padri, madri e figli che avremmo rivisto ininterrottamente nei 4 anni di guerra successivi. Niente di più lontano dalla guerra videogioco che la CNN mostrò dal Golfo.

La storiografia liberale, a partire dai lavori monumentali di Joze Pirjevec, tende a descrivere le guerre jugoslave come il tentativo della burocrazia serba di preservare la Repubblica Federale di Jugoslavia sotto forma di Grande Serbia. Una chiave di lettura, questa, che forse permette di comprendere abbastanza efficacemente quanto avvenne sul piano militare ma non di cogliere le ragioni politiche che in così poco tempo spinsero le burocrazie locali delle diverse nazionalità a voltare le spalle a una Jugoslavia unita.

Soprattutto, il limite centrale di tale interpretazione sta nella sua incapacità di non rispondere alla più semplice delle domande: se queste guerre furono solo un lungo commento al tentativo di costruire una Grande Serbia, perché il resto dei paesi balcanici si divise?

Semplicemente questo criterio liberale non ci permette di comprendere lo smembramento della Bosnia nè il doppio gioco del nazionalismo croato nè la rapidità fulminea con cui la Slovenia si separò dal conflitto, dimostrazione indiretta di preparativi militari e politici che avvenivano da tempo. E’ un criterio che vede solo la lava e non l’eruzione vulcanica che la provoca.

Viceversa, la frammentata interpretazione di stampo stalinista, cioè di quei comunisti nazionalisti nostalgici dell’apparato socialista jugoslavo, tende ad affogare in commemorazioni agiografiche dell’apparato di Tito e a fotografare la guerra come il tentativo di preservare un socialismo ferito dal complotto fascista e fondamentalista di croati e bosniaci, orchestrato dall’imperialismo europeo.

Ma, nuovamente, se la Repubblica Federale di Jugoslavia era tanto salda sulle proprie gambe alla fine degli anni ‘80, come potè non prevenire un simile complotto? E’ evidentemente una posizione infantile già propinate circa il crollo dell’Urss.

In Jugoslavia non c’era il socialismo come andrebbe inteso teoricamente. Nemmeno nel decennio di massima crescita economica, a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60, la Jugoslavia si avvicinò mai a uno stato operaio sano, cioè a un paese dove organi decisionali di fabbrica e di territorio eleggono i dirigenti del governo, dirigono produzione e commercio e, esprimendo a rotazione i lavoratori al governo, applicano quelle misure che servono a rendere sempre meno necessario lo Stato, fino alla sua estinzione.

La Federazione socialista Jugoslava fu il punto più alto di una guerra di liberazione partigiana, a maggioranza comunista proprio come in Italia, che una volta al potere espropriò la proprietà borghese delle aziende e nazionalizzò l’economia. Questo conferì alla Federazione, nei primi due decenni dalla fine della guerra, collante sociale e grandi avanzamenti politici ed economici. Tuttavia, questa rivoluzione non conferì ai lavoratori quel potere che avrebbe permesso loro di dirigere la società con le proprie mani e lanciare un appello rivoluzionario a lavoratori di tutta Europa.

Il caso jugoslavo è una variante del fallimento della teoria del socialismo in un solo paese, pur con le sue peculiarità. Questa debolezza le sarebbe stata fatale nel 1991.

E’ bene però essere chiari fin dal principio.

Per quante storture politiche potesse avere il regime slavo, lo smembramento nazionalista della Jugoslavia fu un atto reazionario, pilotato dalle burocrazie militari dei singoli stati della Federazione per precise ragioni economiche e di potere. A pagarne il prezzo furono migliaia di giovani, donne, anziani e lavoratori inermi, esposti alle peggiori atrocità e umiliazioni. Un processo così velenoso e sanguinoso sarebbe stato destinato a lasciare cicatrici che l’economia di mercato, nei Balcani, non sanerà mai.

Ogni burocrazia nazionale abbandonò molto rapidamente il proprio attaccamento alla Federazione perché il mercato, e le principali potenze che ne rappresentavano gli interessi (Germania, Francia, Russia e Stati Uniti), offriva loro maggiori garanzie economiche e politiche della tenuta della Jugoslavia. Questa è la tesi centrale che spiega le peggiori atrocità di questa guerra: la volontà di questi apparati di rifondare stati nazionali ormai storicamente in ritardo, sulle spoglie di una Federazione nata da un processo rivoluzionario.

Il fatto che i Balcani oggigiorno siano attraversati da una tensione continua è una conferma indiretta di questa interpretazione.

Serve dunque una lettura differente. Lo sbriciolamento della Jugoslavia, il dilagare del veleno nazionalista e il conflitto militare possono essere ricondotti tutti a un conflitto di classe tra i diversi apparati nazionali e le forze economiche e militari in loro sostegno, che si nascose sotto una spessissima cortina di fumo nazionalista. I lavoratori, quale che fosse il loro paese, privi di partiti comunisti con una politica rivoluzionaria, pagarono così il prezzo più alto.

E’ il significato intimo dell’espressione per cui la storia umana è storia di lotte tra classi contrapposte.

Come vedremo, perfino il complesso mosaico balcanico non fece eccezione.

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