In questo anno spietato, abbiamo visto concretizzarsi le inevitabili conseguenze della gestione capitalista di una crisi pandemica: dal sistema sanitario alla produzione e distribuzione dei vaccini, pochi (per non dire nessuno) degli interventi a livello globale si è rivelato all’altezza di una sfida di questa portata. Lo abbiamo analizzato in diversi contesti anche attraverso il nostro contributo su questo sito.

Ma c’è un aspetto particolare, tutt’altro che marginale, che ci proponiamo di prendere in considerazione in questo breve articolo, soffermandoci sui meccanismi che ne hanno influenzato l’andamento in questo difficilissimo periodo: stiamo parlando del ruolo dell’informazione e della stampa in regime capitalista, impossibilitata a slegarsi dalle necessità dettate dal profitto e dunque su di esse piegata, rimodellata, fino alle storture e alle amplificazioni mediatiche fuori controllo a cui tutti abbiamo assistito.

Sarebbe stata possibile una comunicazione differente, in uno scenario del tutto inedito come quello che abbiamo attraversato? Se il dibattito scientifico e politico vivessero momenti più floridi, meno assoggettati alle necessità del mercato, avremmo visto un riflesso positivo anche nelle modalità con cui questa pandemia è stata raccontata attraverso i media?

Vogliamo provare a inquadrare l’evolversi della comunicazione di questo ultimo anno e mezzo a partire da un’analisi di quanto avvenuto, e cercare di trarre alcune considerazioni generali dalla complessità dei fenomeni.

 

Pesci grandi in un piccolo stagno

Partiamo da qui, dallo stato di salute della stampa in Italia.

Secondo i dati dell’Osservatorio sulle Comunicazioni, diffusi a gennaio 2021, nel mese di settembre 2020 la vendita di quotidiani (copie cartacee e copie digitali complessive) raggiunge quota 61,5 milioni di unità, segnando un -14% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Se si considera il periodo settembre 2016-settembre 2020 (4 anni), le copie mensili cartacee subiscono una contrazione che sale addirittura al 37%. Le edizioni digitali, inoltre, non se la passano meglio: se nel settembre 2020 registrano un +5% rispetto al 2019, nel quadriennio 2016-2020 perdono, nel complesso, 16 punti percentuali1.

Un trend in decrescita, dunque, e costante negli ultimi anni.

A questa profonda crisi delle vendite si somma, inevitabilmente, la concentrazione nelle mani di pochi grandi gruppi delle maggiori testate. È di aprile del 2020 la notizia che la holding della famiglia Agnelli ha chiuso l’acquisizione del 48,8% di Gedi dalla Cir dei De Benedetti2, procedendo fin da subito a una ristrutturazione dell’organizzazione sul fronte editoriale e a cambi di direzione dei principali quotidiani (con Maurizio Molinari che diventa il nuovo direttore di Repubblica e direttore editoriale del gruppo, il cui presidente sarà John Elkann). Tra le altre cose, l’operazione è caratterizzata da una “forte attenzione allo sviluppo del digitale”, il cui vero fine ben si evince da una dichiarazione rilasciata nel novembre dello scorso anno dallo stesso John Elkan: “Noi, nel ventunesimo secolo, dobbiamo impegnarci a dare ai nostri lettori un’esperienza simile a quella che si aspettano da società come Amazon, Spotify o Netflix. Quelli sono modelli a cui dobbiamo aspirare per la distribuzione dei contenuti digitali e l’attenzione nei confronti degli utenti”.

Ma il rimodellamento del gruppo Gedi a immagine e somiglianza di ciò che il rampollo di casa Agnelli intende per informazione odierna non è l’unica conseguenza di questa operazione: mentre il gruppo chiederà almeno 50 prepensionamenti a Repubblica entro il 2021 (subito dopo aver chiesto un prolungamento della cassa Covid di ulteriori tre mesi, dopo i tre già effettuati), quattro storiche testate locali sono state cedute, già nell’autunno dello scorso anno, al gruppo Sae (Sapere aude Editori), nato a luglio e guidato dall’imprenditore Alberto Leonardis. È grazie a questa acquisizione che i lavoratori di TirrenoLa Nuova FerraraGazzetta di Reggio e Gazzetta di Modena si trovano oggi a fronteggiare la più paradossale delle situazioni: mentre vengono imposti “inevitabili” tagli al personale per il rilancio delle quattro testate, Sae sembra intenzionata a procedere all’acquisto di un quinto giornale locale, La Nuova Sardegna4. Diverse giornate di sciopero sono state annunciate nei giorni scorsi dai Comitati di Redazione, come già era accaduto nell’ottobre dello scorso anno all’annuncio della vendita da parte di Gedi delle prime quattro testate a favore di Sae.

Il caso Gedi (gruppo al quale, ricordiamo, appartengono non solo Repubblica, ma anche L’Espresso, HuffPost Italiala Stampa, il Secolo XIX, Radio DeeJay, e tanto altro) è senz’altro tra i più rappresentativi dello stato dell’arte della stampa borghese in Italia. Ma se volessimo dare un rapido sguardo al panorama che ci circonda, cercando risposta alla domanda “A chi appartiene davvero l’informazione nel nostro Paese?”, ci renderemmo conto che la situazione è tutt’altro che rosea, in qualunque direzione si guardi. Gran parte delle azioni del Gruppo Rizzoli (RCS MediaGroup), ad esempio, è saldamente controllata da Urbano Cairo; a spartirsi il pacchetto ci sono anche Mediobanca, Diego Della Valle (proprietario di Hogan e Tod’s e importante azionista di Italo) e l’assicurazione Unipol, fra gli altri. I Caltagirone, potentissima famiglia di costruttori edili, possiedono invece in larga parte Il Messaggero, Il Mattino, Leggo e il Gazzettino. Infine, Il Sole 24 Ore, la testata ufficiale di Confindustria.

In un contesto di così elevata concentrazione dei gruppi editoriali nelle mani di grandi investitori ed industriali, non è difficile pensare che l’informazione sia tutt’altro che “libera” dalle ingerenze del capitale. L’abbiamo visto fin qui per quel che riguarda lo scenario italiano, ma tutto ciò è forse ancora più vero se spingiamo lo sguardo oltre i confini nazionali. A livello globale, assistiamo a più livelli a un impressionante accentramento del capitale: basti pensare al ruolo giocato dai social network, le cui piattaforme di maggior successo sono pressoché detenute da un’unica proprietà. E il discorso non è differente se si guarda alla stampa estera.

Il modello Gedi, quello basato su “un’esperienza simile a quella che [i lettori] si aspettano da società come Amazon, Spotify o Netflix”, non è infatti una novità attribuibile al genio imprenditoriale di Elkann. Se volessimo guardare oltre oceano e identificare un “padre nobile” di queste operazioni, basterebbe pensare all’acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos, avvenuto già nel 2013. Il suo non è l’unico caso, ma è particolarmente significativo che proprio il fondatore di Amazon si sia assicurato la testata giornalistica della capitale degli Stati Uniti, applicando fondamentalmente le logiche di sviluppo che hanno portato la stessa Amazon al successo: per citare un articolo di Forbs, al Post “Il vecchio modello si basava sulla generazione di entrate elevate per ogni lettore. Il loro nuovo obiettivo rinuncerebbe alle entrate per singolo lettore a favore dell’acquisizione di più lettori. In altre parole, una moltiplicazione dei volumi.”5

Come a dire: quantità, non qualità. Tutta a scapito dei lettori, senz’altro, e molto spesso anche dei lavoratori delle testate stesse, come abbiamo visto. Se pensiamo ai lavoratori del settore dell’informazione, infatti, è indubbio che operazioni come quelle appena descritte non facciano altro che esacerbare una situazione già molto precaria in partenza. In Italia, ad esempio, due giornalisti su tre sono liberi professionisti, e il loro reddito è in media 5 volte inferiore rispetto ai colleghi alle dipendenze di una testata. Per non parlare dell’abisso salariale tra uomini e donne: una giornalista, in media, guadagna il 20% in meno rispetto a un collega uomo. E questa è solo la punta di un iceberg fatto di precarietà e cottimo.6

La stampa guarda allo sviluppo digitale come modello di iperconsumo: è in questo senso che vengono applicate logiche che sfiorano il click baiting, con titoli spesso sensazionalistici che rimangono in prima pagina per pochi minuti, prima di essere modificati per attirare nuovi click. Se questo non bastasse, il legame sempre più profondo tra profitto e informazione si disvela nelle operazioni di compravendita delle testate: la borghesia acquista i gruppi editoriali, sempre più in difficoltà, assicurandosene le redazioni e smembrandone il tessuto produttivo attraverso licenziamenti, casse integrazioni e prepensionamenti.

In questo contesto, gli investimenti pubblicitari diventano spesso un elemento di sopravvivenza per le testate. E, per attirare investimenti pubblicitari, le testate devono avere un certo appeal, che nulla ha a che vedere con la profondità politica espressa negli articoli proposti.

 

Pandemia: disinformazione a portata di click

Che cosa è accaduto, dunque, durante questo anno e mezzo di “infodemia”? Siamo di fronte ad un’esacerbazione dello stesso meccanismo fin qui raccontato: in una certa misura, infatti, la produzione smodata di notizie riguardanti gli sviluppi della pandemia è uno specchio molto preciso del consumo veloce e bulimico delle informazioni, vere e proprie merci pensate per essere fruite in grande quantità.

A questo si aggiunge l’estrema debolezza dell’analisi, sul fronte politico, della stampa borghese, che molto più spesso si limita a riportare una sequenza di fatti, dimostrando una grande difficoltà a leggerli nel loro insieme. Un caso su tutti è quello che riguarda la gestione da parte della borghesia italiana e del governo delle prime fasi della pandemia, come spieghiamo anche in uno dei nostri editoriali: “Sulla stampa italiana è stato dato grande risalto agli sforzi del governo di alzare il numero di posti letto in terapia intensiva dagli attuali 5mila (su una popolazione di 60 milioni) ad almeno 7mila. È una cortina fumogena che nasconde la situazione disastrosa in cui versa il sistema sanitario nazionale, lasciato allo stremo delle forze per il mantenimento parassitario del sistema privato.”7

È sufficiente dare un’occhiata alle pagine social dei principali quotidiani. L’informazione scientifica è usata in maniera assolutamente approssimativa dalla stampa italiana: è citata per dire tutto e il contrario di tutto, giustificando una volta le aperture, con i lavoratori costretti al rientro in fabbrica o in ufficio in nome di una fantomatica ripresa economica, e una volta le chiusure, con toni a dir poco apocalittici. Fabbriche piene e mezzi di trasporto strabordanti sono, nella narrativa borghese, una necessità dettata dalla produzione capitalista: la salvaguardia della salute dei lavoratori sembra essere, per l’appunto, una responsabilità esclusiva dei lavoratori stessi, chiamati a comportamenti “idonei”, atti a gestire il contagio a prescindere dalle loro condizioni.

Il ricorso alla voce degli esperti, di cui abbiamo avuto abbondanti esempi nel corso di questo anno e mezzo, è un riflesso dell’inconsistenza della comunicazione da parte della classe dominante, che scarica le proprie responsabilità politiche sulle spalle dei tecnici. Dal suo canto, la stessa comunità accademica e scientifica si dimostra incapace di unire i punti, di cogliere il nesso tra gli eventi che hanno portato a questa pandemia e che ne hanno caratterizzato gli sviluppi. Nessuna critica al modello di sviluppo capitalista arriva dalla scienza attraverso le decine e decine di interviste rilasciate in questi mesi, al contrario: molto più spesso sono chiamati ad una grande esposizione mediatica proprio quegli esponenti della comunità scientifica che rappresentano il capitale privato.

Nell’assoluta pochezza di analisi da parte dell’informazione dimostrata in questi mesi, abbiamo assistito a fenomeni di vera e propria caccia alle streghe (prima il runner untore, poi gli studenti portatori del virus in quella scuola che tanto a lungo è stata loro preclusa), tanto più rilevanti perché prodotti in un momento storico in cui il bisogno di conoscenza da parte dei cittadini è più elevato. La buona riuscita della gestione della pandemia, anche dal punto di vista mediatico, è stata riversata interamente sulle spalle dei singoli, come se ad avere “comportamenti irresponsabili” fossero i lavoratori, gli studenti, i pensionati travolti dall’impreparazione del sistema capitalista a prevenire – o quantomeno gestire – l’emergenza.

A seconda che venissero guardate attraverso la lente del profitto o della rivendicazione alla socialità, le notizie hanno assunto carattere diametralmente opposto: legittime sono, dunque, le proteste dei ristoratori che chiedono più aperture, scriteriati gli assembramenti nei bar all’ora dell’aperitivo.

Al contempo, il tema della cancellazione dei brevetti sui nuovi vaccini viene appena sfiorato dalla stampa italiana, più per dovere di cronaca che per vere e proprie prese di posizione. Con lo stesso taglio viene affrontata la difficoltà di approvvigionamento vaccinale da parte dei paesi più poveri.

 

Veloci, superficiali, padronali: i social network

Un ultimo passaggio, seppure breve, della nostra riflessione, deve riguardare il mondo dei social network. Lo apriamo con una brevissima citazione dal Manifesto del Partito Comunista:

Spinta dal bisogno di trovare sempre nuovi sbocchi, la borghesia invade il mondo intero. Essa deve penetrare dovunque, stabilirsi dovunque e impiantare ovunque dei mezzi di comunicazione.

I social network non producono informazione, ma sono piattaforme gestite da aziende private, i cui proventi vengono dagli investimenti pubblicitari. In questo senso, il numero di utenti presenti sulle piattaforme è determinante per il profitto delle aziende che le gestiscono. Sui social network sono presenti tutti i collettivi e i gruppi politici del paese, se non a livello mondiale. Noi non facciamo certo eccezione. Questo di per sé genera una contraddizione evidente: la piattaforma viene usata per propagandare posizioni spesso direttamente conflittuali nei confronti della piattaforma stessa, ma il solo fatto di avvicinare utenti in questo modo rappresenta comunque una fonte di profitto per la piattaforma. È evidente che i social network siano un mezzo che collettivi come noi e organizzazioni potranno usare fintanto che rimarranno aperti. Certo non ci stupiremmo se le proprietà decidessero strette, espulsioni o vere e proprie chiusure del sito se il conflitto sociale dovesse fare un salto di qualità.

Al netto di alcune policy emanate in relazione alla comunicazione che ruota intorno alla pandemia, i principali social network si inseriscono in questo contesto con le stesse dinamiche di iper-consumo di notizie visto in precedenza, amplificandone i meccanismi attraverso la condivisione. Un consumo veloce, spesso superficiale, che non contribuisce certo al dibattito e all’approfondimento. Ma d’altronde lo ribadiamo: non è questo lo scopo di Facebook, Instagram, Twitter o altre piattaforme social. Il loro scopo è remunerare la socialità umana. Ed è del tutto evidente che man mano che si approfondisce la crisi del sistema che l’ha creato andrà ad acuirsi la crisi di funzionamento della piattaforma stessa. Lì dove oggi c’è il tentativo di formulare buone regole di condotta, domani potrebbe diventare la leva della proprietà per estendere il controllo non certo su ogni forma di dissenso individuale, senza il quale non vi sarebbe profitto, ma su ogni espressione “organizzata” dello stesso. I social network sono strumenti individuali, perché riflettono l’individualità di profitto del sistema che li ha creati. Se usati a scopi collettivi ben più invadenti della spinta ad approvare una legge contro l’omofobia, semplicemente vengono impugnati dalla proprietà che sa ben che fare del concetto di libertà.

 

La necessità di una nostra voce

Cosa ci è mancato davvero, in questo difficile anno e mezzo? L’assenza di un contrappeso alla voce della classe dominante si è fatta sentire in una tutta la sua rilevanza: i lavoratori della ricerca e della sanità in primis hanno dovuto assistere all’utilizzo spregiudicato del proprio lavoro in favore di una propaganda incerta e ambigua. E, con loro, il resto della classe lavoratrice di questo paese, che per tutti questi mesi ha subito il martellamento di messaggi che li additavano come responsabili della catastrofe che ci ha travolto, alternati ad appelli alla responsabilità individuale che non hanno mai tenuto conto delle condizioni materiali dei lavoratori stessi. Gli stessi strumenti digitali, che slegati dalle logiche del profitto potrebbero fornire una piattaforma utilissima alla circolazione delle informazioni e alla crescita del dibattito, sono oggi il riflesso della stessa pochezza politica.

Una società non libera non può produrre una informazione libera. Il fatto stesso che nelle società occidentali siano tollerati i siti internet di collettivi e organizzazioni di sinistra è solo una concessione dettata dal basso livello dello scontro di classe attuale. Chi guadagna dall’informazione non ha interesse a che crescano all’ombra del loro dominio testate indipendenti, che diano voce indipendente alle necessità di chi lavora. Oggi dell’indipendenza della stampa si è fatto un feticcio piccolo borghese, come è il caso di testate come Open o Il fatto quotidiano. Ma tale presupposta indipendenza in realtà copre solo le aspirazioni di un settore di piccola borghesia e di padronato che non concede alcuna voce reale alla classe lavoratrice e ai suoi interessi. Eppure la classe lavoratrice è socialmente la maggioranza di questa società, anche in Italia. Dunque abbiamo bisogno che la stampa venga espropriata dai grandi gruppi proprietari e posta sotto il controllo di comitati di giornalisti e dei lavoratori delle tipografie. Questo non solo annullerebbe o almeno ridurrebbe drasticamente il peso della visibilità mediatica degli industriali e della destra, ma permetterebbe ai lavoratori di avere non una sola voce, ma più d’una. Questo conferirebbe una vera libertà di stampa alla nostra società.

 

Note: