“Why think all the bad things when life is so good?

Why help with an ‘am’ when there’s always a ‘could’?

Let the whales worry about the poisons in the sea

Outside of California, it’s foreign policy”1

(NOFX – Franco Un-American – The war on errorism)

 

“America sent you on a mission to remove a grave threat and to liberate an oppressed people, and that mission has been accomplished”2

(George W. Bush Jr, 1 maggio 2003)

 

Il ventennale degli attentati dell’11 settembre 2001, che uccisero 2996 innocenti sbriciolando le Torri Gemelle, rappresenta il momento più adatto per fotografare la crisi profonda dell’imperialismo americano. I confini statunitensi vennero violati per la prima volta nella loro storia. La vulnerabilità del servizio di sicurezza più potente nel paese con la più alta spesa militare si mostrò palese agli occhi increduli del mondo.

Da allora, il mondo non è stato più lo stesso.

Da allora, solo sconfitte per la potenza mondiale dominante, che ha perso la guerra al terrorismo, non ha impedito la radicalizzazione in America Latina, non ha impedito alla Russia di invadere la Georgia ed annettere la Crimea, ha abbandonato l’Iraq con più terroristi di quanti ve ne fossero quando la invase, ha dovuto mediare il confronto con la Korea del nord ed infine ha abbandonato Kabul di fronte all’avanzata talebana dopo 20 anni di guerra.

E’ evidente che stia succedendo qualcosa. Ed è ancora più evidente che questa crisi è così generale da non smascherare solo le fragilità dell’imperialismo americano ma quelle di tutti gli attori che vorrebbero prenderne il posto. Oggi è l’intero sistema di spartizione del mondo ad entrare in una crisi simile a quella economica in cui già si dibatte il sistema capitalista.

Questo è il processo inedito di cui siamo testimoni, ben differente dal passaggio di consegne tra corona britannica e imperialismo americano che caratterizzò la fase successiva alla prima guerra mondiale. Oggi non vi sono nazioni che possano raccogliere il testimone di gendarme mondiale dagli Stati Uniti in declino.

 

Missione incompiuta

La guerra in Afghanistan è costata 2261 miliardi di dollari, una cifra che avrebbe potuto ricostruire il paese 115 volte3. Un autentico fiume di dollari ha coperto un parallelo fiume di sangue, con oltre 3000 morti tra i contractors e quasi 2500 soldati uccisi per un paese ritenuto responsabile degli attentati alle Torri Gemelle, sebbene Osama Bin Laden fosse saudita così come la fonte della maggior parte dei finanziamenti di Al-Qaeda. Si stima che le vittime civili complessive di questa guerra siano oltre 170 mila, ma la scienza statistica delle grandi università non è mai troppo precisa quando si tratta di contare le vittime delle guerre imperialiste4.

L’esercito americano venne mandato a invadere un’intera regione del mondo senza avere un esercito nemico da fronteggiare. Al-Qaeda non ne aveva uno. I talebani, addestrati e armati dagli Stati Uniti per decenni in chiave anticomunista, non si sognarono nemmeno di contrastare sul piano militare l’avanzata americana. Come nel caso dell’invasione sovietica, abbandonarono le città e si rifugiarono sulle montagne, dove condussero una guerriglia implacabile alle fondamenta di un contingente impreparato a fronteggiare un nemico non regolare.

L’invasione dell’Iraq di due anni dopo, anticipata dalla squallida messa in scena del segretario di stato americano Colin Powell al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel febbraio 2003, mentre agitava una finta fialetta di antrace per dimostrare che Saddam Hussein deteneva armi di sterminio di massa5, ebbe caratteristiche simili. L’esercito di Hussein si dissolse in pochi giorni di combattimento. A differenza del padre nel 1991, George Bush Jr decise di entrare a Baghdad e questo segnò la fine dell’intervento militare in quel paese. L’Iraq devastato dalla bandiera a stelle e strisce si riempì di sangue e di rancore verso gli occupanti. Da non averne, l’Iraq divenne una fucina del fondamentalismo islamico.

Nonostante il celebre discorso di George Bush Jr. del giugno 2003 che indicava la “missione compiuta” dell’imperialismo americano in Iraq, i guai per il Pentagono erano solo cominciati. I costi umani sarebbero diventati insopportabili come quelli economici. Si stima che la cosiddetta guerra al terrorismo sia costata l’esorbitante cifra di 8 trilioni di dollari, facendo lievitare il debito pubblico americano a 22 trilioni di dollari6 e portando ad oltre 900 mila morti.

Queste cifre sarebbero di per sè sufficienti per dare un contesto allo slogan “America First” che avrebbe caratterizzato la vittoria elettorale di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2016. Il capitalismo americano semplicemente non era più nella condizione di sopportare il peso delle proprie avventure. Il protezionismo economico e l’avvio della guerra commerciale con la Cina scorse parallela alla politica di ritiro militare dallo scenario mediorientale. I due fenomeni sono intimamente connessi e Biden, da severo servitore del capitale statunitense, ha applicato lo stesso programma alla lettera.

E’ quindi evidente che la stessa guerra commerciale con la Cina, che rappresenta oggi la più grande minaccia per la tenuta del capitalismo mondiale, sia stato lo spostamento dialettico delle ambizioni americane dal campo di battaglia alla bilancia commerciale.

Le guerre sono causa e conseguenza dello sviluppo dei mercati: danno lavoro le commesse militari come la ricostruzione dopo i bombardamenti. L’intreccio di questi interessi col capitale privato che detiene gli interessi degli stati ha toccato il proprio apice proprio negli anni di disfatta americana in medio oriente, con figure come quella di Dick Cheney che è stato per anni vicepresidente del governo degli Stati Uniti e allo stesso tempo dell’azienda militare Halliburton oltre che finanziatore del partito repubblicano.

Non è dunque possibile analizzare il declino della potenza americana solo da un punto di vista esclusivamente militare. L’imperialismo è innanzitutto uno stadio dell’evoluzione economica del capitalismo. Soprattutto, non rappresenta una novità. Venne analizzato nelle sue tendenze generali da Lenin più di un secolo fa, all’alba della prima guerra. Se Lenin se ne preoccupò non fu certo per ragioni accademiche. In quelle tabelle economiche che studiava c’erano le condizioni materiali di sviluppo dell’orrendo conflitto mondiale che stava per scoppiare.

 

Banchieri col mitra

L’imperialismo rappresenta la fase monopolistica del capitalismo. La concentrazione del capitale era già stata teorizzata nelle pagine del Manifesto Comunista. E’ un processo intrinseco all’accumulazione del capitale. La formazione di monopoli è un riflesso della polarizzazione economica della società. Sebbene apparentemente il capitalismo si basi sulla concorrenza di libere imprese, nella realtà questa competizione si completa con un costante processo di acquisizioni industriali. Il capitalista che cresce può solo farlo a spese della capacità di remunerare il capitale di un padrone più debole.

Lenin in effetti annotava già nel 1914:

“Ma, a mano a mano che le banche si sviluppano e si concentrano in poche istituzioni, si trasformano da modeste mediatrici in potenti monopoliste, che dispongono di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industria, e così pure della massima parte dei mezzi di produzione e delle sorgenti di materie prime di un dato paese e di tutta una serie di paesi. Questa trasformazione di numerosi piccoli intermediari in un gruppetto di monopolisti costituisce uno dei processi fondamentali della trasformazione del capitalismo in imperialismo capitalista.”7

Questa descrizione apparentemente astratta combacia perfettamente con la situazione odierna. Per comprenderlo è sufficiente far notare che oggi, secondo Forbes, la compagnia più grande del pianeta non è statunitense ma cinese. La ICBC (la banca statale d’investimenti cinese) ha surclassato JP Morgan Chase come compagnia più grande del mondo. Va da sè che la presenza di una compagnia cinese alla testa di una classifica che raggruppa le 2000 aziende più grandi del pianeta, che impiegano insieme 87 milioni di persone, posseggono 159 mila miliardi di dollari in azioni e generano 38 mila miliardi di ricavi pari al 51% del PIL mondiale, è una risposta implicita sulla natura ormai capitalista dell’economia cinese.

La divisione del mondo operata dalle grandi potenze dopo che il capitalismo è diventato un sistema globale è solo un riflesso della divisione del mondo già operata dal capitale finanziario, che non è che un riflesso del dominio del capitale bancario ormai concentrato anch’esso in monopoli. Il dominio militare è solo un riflesso della divisione mondiale che i monopoli sviluppano. A volte ne è conseguenza, a volte ne è strumento.

Così ancora Lenin annotava nel suo L’Imperialismo:

“La caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. Abbiamo visto lo zelo con cui le leghe internazionali dei capitalisti si sforzano, a più non posso, di strappare agli avversari ogni possibilità di concorrenza, di accaparrare le miniere di ferro e le sorgenti di petrolio, ecc. Soltanto il possesso coloniale assicura al monopolio, in modo assoluto, il successo contro ogni eventualità nella lotta con l’avversario, perfino contro la possibilità che l’avversario si trinceri dietro qualche legge di monopolio statale. Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie.”8

La crisi finanziaria dei mutui subprime del 2008 poteva divenire crisi dell’economia reale solo in virtù di questo contesto. Se il pianeta è un solo mercato, tutti i fattori che hanno spinto alla crescita del mercato mondiale sono dialetticamente trasformati nel contrario di fronte a una crisi di sovrapproduzione. Così una crisi materiale si esprime con una apparentemente immateriale: magazzini pieni e debiti insoluti. A sua volta, la crisi del debito ha innescato fallimenti e ulteriori crisi nella produzione reale.

Lenin aveva intuito che un’evoluzione così ampia del capitalismo avrebbe potuto svilupparsi solo a scapito della sua creatura, lo stato nazionale. Le multinazionali che dominano il pianeta non hanno confini ma la spartizione del globo è fatta da nazioni in carne ed ossa. Lo sviluppo di borghesie regionali costrette a coordinare affari globali è sintomatico di questa evoluzione, che è contenuta in nuce nel processo di valorizzazione del capitale stesso. Per allargare la produzione le frontiere non esistono e se serve vanno abbattute.

Ma la forma politica di questo dominio può solo essere quella classica dello stato nazionale. Per questo gli stati nazionali sono il pilastro su cui le banche si sostengono. E’ un riflesso di un parassitismo che, nella produzione di tutti i giorni, si manifesta nel distacco tra proprietà e produzione e che sul piano mondiale si manifesta esattamente nel dominio di una oligarchia finanziaria sovranazionale ma agganciata ai bisogni delle borghesie dominanti. Le agenzie di rating per ora sono praticamente tutte occidentali. Questo riflette ancora un certo tipo di rapporti di forza nel mercato mondiale.

 

Una partita a tre

Le relazioni mondiali tra oriente e occidente sono determinate da Stati Uniti, Cina e Russia. A un occhio superficiale questa condizione sembrerebbe ricalcare quella della guerra fredda. Effettivamente è il punto di vista di molte formazioni politiche di tradizione stalinista, cioè di comunismo nazionalista. Eppure questa sarebbe una lettura superficiale. Durante la guerra fredda la Cina giocava un ruolo da outsider, oggi tiene in piedi il mercato mondiale. L’Unione Sovietica giocava un ruolo di antagonismo mondiale nei confronti degli Stati Uniti, oggi la Russia non ha potuto impedire la crisi in Ucraina ed è ridotta a potenza regionale che deve trattare con la Turchia il proprio ruolo in Medio oriente. Vi è un’altra differenza non di poco conto rispetto al periodo della guerra fredda: allora Cina e URSS, al di là dei loro limiti, rappresentavano comunque un’alternativa per i lavoratori di tutto il mondo, oggi sono potenze capitaliste che, in competizione con gli Usa, puntano a conquistare nuove fette di mercato.

Si assiste a un paradosso: se gli Stati Uniti sono i diretti responsabili della crisi della NATO e assistono impotenti allo sfaldamento del G7, il cui declino descrive bene la limitatezza della coalizione occidentale, la Cina non ha da opporre alcuna coalizione verosimile. E’ peculiare che la crisi economica si sia riflessa innanzitutto sulla tenuta dell’alleanza atlantica, esattamente come la crisi del tesoro americano si è riflesso sull’impegno militare americano in modo pressoché lineare.

Ancora nel 2016, all’ultimo meeting NATO a Varsavia, il New York Times notava:

“Certo, è stato solo un campanello d’allarme. Ma quando la Polonia ha fatto appello ai suoi alleati della NATO lo scorso mese per prepararsi a una ipotetica invasione che provenisse da est, la risposta tedesca è stata piuttosto fredda. L’esercitazione, chiamata Anakonda – 25mila truppe da più di 20 paesi, la più grande dalla fine della guerra fredda – è stata preparata per mandare un avvertimento a Mosca, una prova di forza del summit dell’Alleanza atlantica di questa settimana in Polonia. Berlino ha mandato un messaggio chiaro ai propri alleati in Polonia, contribuendo all’esercitazione con non più di 400 soldati, nessuno dei quali combattente.”9

Dopo l’aggressione russa della Georgia nel 2008 per difendere i separatisti osseti e l’annessione della Crimea, gli Stati Uniti hanno acconsentito a fare manovre militari in Polonia e stati baltici sotto le insegne della NATO per rinsaldare la coalizione con questi paesi. Ma il contingente che hanno acconsentito a lasciare dopo la monumentale esercitazione non ha superato le 4 mila unità, di fatto un dispiegamento simbolico.

L’amministrazione americana non ha alcun interesse a inacidire i rapporti con la Russia al confine europeo. La parola d’ordine che si è fatta strada dal 2016 ad oggi è quella del protezione economico e militare. Il desiderio che gli alleati europei facessero di più si è scontrato contro l’interesse tedesco e francese di costruire un nuovo gasdotto con la Russia. Si sarebbe rivisto lo stesso copione cinque anni dopo, all’ultimo G7 del giugno 2021. In questo caso, che nella sala ovale sieda Trump o Biden non ha fatto alcuna differenza.

La stessa ultima riunione del G7 di giugno 2021 è stato un tentativo dell’amministrazione Biden di coagulare un fronte contro la Cina. La Casa Bianca voleva mostrare la forza della coalizione occidentale ed è caduta nelle contraddizioni della Brexit. Biden non ha fatto i conti con Boris Johnson che ha minacciato di rompere il protocollo sull’Irlanda del nord. Johnson può anche provare simpatia per la strategia dei Biden ma risponde ad interessi ben più locali. D’altronde il mercato è mondiale ma i confini nazionali sono quelli che difendono le borghesie che lottano per impossessarsene.

La pandemia ha solo spostato l’oggetto dello scontro protezionistico dall’acciaio ai vaccini. Oggi la Cina è il più grande produttore di vaccini del mondo. La sua politica di vaccinazione del terzo mondo è un atto di guerra contro la Casa Bianca tutt’altro che filantropico. Le fiale sono il canale lungo cui far scorrere gli investimenti.

Il declino del G7 si può fotografare anche dalla copertura del mercato mondiale. Nel 1980 copriva da solo il 50% del PIL mondiale. Oggi non arriva al 40%10. E gran parte delle multinazionali di questi paesi hanno investimenti in Cina mentre la borghesia che li rappresenta cerca di scoraggiarli. E’ una contraddizione insolubile. L’unica fortuna degli Usa è che, per quanto possa essere in ascesa, la Cina manca di alleati competitivi. E’ sola nello scontro e con una costante minaccia di sovrapproduzione da fronteggiare. Le ricette economiche protezioniste del governo cinese avranno lo stesso effetto di quelle americane: aumentare le contraddizioni per una economia già pesantemente a rischio sovrapproduzione.

 

Gli 11 settembre dell’imperialismo americano

L’11 settembre 2001 fu un punto di svolta perché espose l’imperialismo americano alle contraddizioni di un mondo che aveva creato con anni di dominio economico e militare. La borghesia americana sostituì felice la minaccia comunista con quella islamica, così da tenere sempre alti gli investimenti in armamenti. Ma le contraddizioni della lotta di classe a livello mondiale hanno continuato a scavare anche sotto i cingoli dei carri armati americani. Quanto più si aprivano fronti che la Casa Bianca non poteva gestire, tanto più alto diventava il costo economico ed umano dei fronti esistenti.

Oggi la distribuzione delle testate nucleari tra potenze mondiali e regionali rende improbabile lo scoppio di un conflitto mondiale tradizionale. Ma quanto avvenuto in Siria dimostra che è possibile avere scontri tra grandi potenze per procura. Il Medio oriente in particolare sembra riflettere oggi questo scenario.

Dal declino degli Stati Uniti senza una potenza che possa prenderne il posto deriva solo ulteriore instabilità. Che si esprima ora in una guerra commerciale o in conflitti per procura più piccoli ma non meno sanguinosi di quelli mondiali, questo è un aspetto non centrale. L’aspetto più importante è che nè gli Stati Uniti nè la Cina possono occuparsi della reciproca guerra commerciale senza fare i conti con la propria radicalizzazione interna. Dei due paesi, gli Stati Uniti sono senz’altro quello dove le tensioni sociali sono emerse più esplicitamente. La stessa luna di miele con Biden è destinata ad estinguersi presto.

Presi come punti di svolta, assisteremo ad altri 11 settembre per la potenza dominante, ma questi non avranno molto probabilmente il carattere di un attentato terroristico. Assumeranno invece la forma di terremoti sociali causati dalla crisi economica e climatica imperante e si uniranno al disincanto profondo che sta permeando le istituzioni della democrazia borghese americana.

Anche in questo caso non è centrale che questa radicalizzazione oscilli tra l’ultradestra e black lives matter. E’ il sintomo di una tensione sociale che deve scaricarsi e non trova uno sbocco reale. Senza lo specchio per le allodole di molte avventure militari in Medio oriente, molti nodi verranno al pettine in patria con più rapidità. Vent’anni di palestra rappresentata dagli avvenimenti successivi all’11 settembre 2001 diventeranno coscienza di classe per le nuove generazioni che hanno visto solo gli orrori della guerra e del patriottismo. Il gendarme del mondo si trasformerà dialetticamente nel proprio contrario, cioè nell’arena della lotta tra le classi.

 

 

Note:

1 “Perchè preoccuparsi delle cose brutte se la vita è così bella/Perché aiutare con un “sono” quando c’è sempre un “potrei”?/lascia che siano le balene a preoccuparsi dei veleni nel mare/fuori dalla California, è politica estera”

2 “L’America vi ha inviato in missione per rimuovere una grande minaccia e liberare un popolo oppresso e quella missione è stata compiuta”.

7 Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1914

8 Ibidem