
“Se la guerra scoppia…una cosa sola è certa: questa guerra, nella quale da quindici a venti milioni di uomini si scannerebbero fra loro devastando l’intera Europa come mai in passato, questa guerra deve o provocare la vittoria immediata del socialismo o scuotere a tal punto il vecchio ordine e lasciare dietro di sé un tale ammasso di rovine che la vecchia società capitalista apparirà allora più assurda che mai.”
Friedrich Engels, 1892.
Nel giro di vent’anni la Germania era diventata una potenza industriale. Era il secondo produttore di carbon fossile al mondo il primo di ferro, ghisa e apparecchiature elettriche. Nel 1913 il volume del suo commercio con l’estero era il doppio di quello francese e l’85% di quello britannico.[1]. Eppure non aveva colonie. La potenza economica tedesca era sorta mentre quella militare di Inghilterra e Francia aveva già conquistato il grosso dell’Africa e dell’Asia. Ma nella misura in cui non può esistere una moderna industria capitalista senza un moderno imperialismo, questo squilibrio non poteva prolungarsi in maniera indefinita. Esso fu nascosto per anni dall’allargamento dei mercati. Ma ai primi segnali di sovrapproduzione, le guerre commerciali subentrarono al liberoscambismo. Non fu necessario molto tempo perché alla guerra tra le merci seguisse quella tra gli uomini. Del resto, come disse il generale prussiano von Clausewitz, “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”.
L’Internazionale Socialista aveva previsto e analizzato ciascuno dei processi che avrebbero portato ineluttabilmente alla guerra. Non passò Congresso in cui non fosse sottolineata l’imminenza del conflitto e le necessarie azioni di risposta. Come spiegò Rosa Luxemburg:
La guerra mondiale fu preparata per decenni nella più aperta pubblicità, alla luce del sole, passo per passo, ora per ora. (…) E se c’era qualcuno che si era sforzato ed era in grado di controllare per tutto il tempo con occhio chiaro questi processi e questi sommovimenti, questo qualcuno era la socialdemocrazia tedesca. (…) La guerra alla chetichella e sotterranea di tutti gli Stati capitalistici contro tutti alle spalle dei popoli asiatici e africani doveva portare presto o tardi ad una resa dei conti generale (…). La guerra generale sarebbe scoppiata non appena gli antagonismi parziali e mutevoli tra gli Stati imperialistici avessero trovato un asse centrale, un forte antagonismo preponderante intorno al quale potessero temporaneamente raggrupparsi. Questa situazione si determinò con la comparsa dell’imperialismo tedesco. (…) Così l’odierna guerra mondiale è sospesa in aria da otto anni. Se essa fu sempre rimandata ciò accadde soltanto perché ogni volta una delle parti interessate non era ancora pronta per i preparativi militari. [2]
Al Congresso internazionale di Basilea del 1912 i dirigenti socialdemocratici si batterono il petto giurando di fare la “guerra alla guerra”. Ma la routine parlamentare li aveva abituati ad un mondo dove alle parole non devono necessariamente seguire i fatti. Quando scoppiò la guerra essi furono posti di fronte al bivio: o lotta alla guerra o parlamento. Scelsero quest’ultimo e a quel punto non fu solo guerra: fu anche la fine dell’Internazionale.
Quando a giugno del 1914 a Sarajevo (Serbia) uno squilibrato uccise l’Arciduca austriaco futuro erede al trono imperiale asburgico, fu trovato il pretesto per la guerra che covava da anni. Il 25 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. Forte di una opposizione che per il momento non lo impegnava a niente, l’esecutivo tedesco dichiarò: “Il proletariato cosciente di tutta la Germania (…) eleva un’infiammata protesta contro l’attività criminale dei guerrafondai (…). Non una goccia di sangue di un soldato tedesco dev’essere versata per soddisfare la brama di potere dei tiranni austriaci, per gli interessi economici imperialistici.” [3] Il 26 luglio i giornali del partito titolarono: “Noi non siamo marionette, combattiamo con tutta energia un sistema che rende gli uomini strumenti senza volontà del cieco gioco delle circostanze, questo capitalismo che si prepara a trasformare la Europa assetata di pace in uno scannatoio”.[4]
Ma quando il 29 luglio si riunì l’Ufficio socialista Internazionale a Bruxelles, per preparare il congresso internazionale di metà agosto, la situazione apparve subito diversa. Il dirigente austriaco Victor Adler vi si presentò completamente rassegnato: “La classe operaia ha fatto tutto quella che poteva contro le mene dei guerrafondai. Ma non vi aspettate altre azioni da noi. (…) Non sono qui per tenere discorsi in un’assemblea popolare, ma per riferirvi la verità: che un’azione è impossibile ora che centinaia di migliaia sono già avviati al confine e all’interno domina il diritto marziale”. [5] L’Ufficio Internazionale fece finta di niente, approvò una risoluzione generica contro la guerra e passò oltre. La verità è che ogni dirigente riformista vedeva in Victor Adler il proprio stesso futuro. La sera si tenne un comizio contro la guerra con tutti i dirigenti dell’Internazionale. Rosa Luxemburg non vi prese nemmeno la parola. Era evidente che presagiva ormai tutta l’impotenza del gruppo dirigente internazionale. L’unico che provò ad infiammare quel comizio fu il dirigente socialista francese Jaurès che appena tornato a Parigi fu ucciso da un giovane nazionalista.
Il 3 agosto la Germania entrò infine in guerra a fianco dell’Austria, contro Inghilterra, Francia, Serbia e Russia: tutta l’Europa era trascinata nel conflitto. Si tenne subito in fretta e furia la riunione del gruppo parlamentare socialdemocratico tedesco. Il destino del socialismo venne deciso in pochi minuti: a sorpresa la maggioranza del gruppo si espresse a favore del voto per i crediti di guerra. La sinistra del partito rimase immobilizzata dallo stupore e decise di disciplinarsi E questa era la differenza di non poco conto con la destra interna: i parlamentari opportunisti dichiararono in seguito che, se si fossero trovati in minoranza, avrebbero votato in ogni caso a favore della guerra, rompendo la disciplina e – se necessario – il partito stesso. L’ala sinistra invece nascose la propria viltà dietro al paravento di un’ingenua disciplina di partito. L’unico che realmente si pentì fu il giovane parlamentare rivoluzionario Karl Liebknecht, figlio del defunto William, storico collaboratore di Marx:
Il 3 e il 4 agosto tutto andò a rotta di collo: ci trovammo a non avere che poche ore, pochi minuti anzi, e ci trovammo così, in un colpo solo, in preda allo spavento. (…) Fu così che, stringendo i denti, il 4 agosto mi sottomisi alla decisione della maggioranza. Mi sono subito amaramente pentito di averlo fatto e sono pronto perciò ad accettare a questo proposito qualunque rimprovero.
Il 4 agosto del 1914 rimarrà per sempre sinonimo di tradimento, l’anniversario in cui si celebra la vigliaccheria burocratica. Il gruppo dirigente di un partito che contava centinaia di migliaia di iscritti mandò i lavoratori al massacro senza battere un sol colpo. Il gruppo parlamentare dell’Spd motivò così il proprio voto:
Perciò noi compiamo ciò che abbiamo sempre proclamato: non piantiamo in asso la nostra patria nell’ora del pericolo. Ed in questo ci sentiamo all’unisono con l’Internazionale che ha sempre riconosciuto il diritto di ogni popolo all’autonomia nazionale ed alla autodifesa, mentre dall’altra parte ci sentiamo in armonia con essa nel condannare ogni guerra di conquista. Guidati da questi principi, approviamo i crediti di guerra richiesti. [6]
La sera stessa a casa di Rosa Luxemburg si riunirono i pochi esponenti socialdemocratici rimasti contrari alla guerra. Si decise di mandare immediatamente un telegramma ad ogni segretario di circolo e di zona considerato critico, per tastare il polso del partito. Il risultato fu disastroso: nessuno rispose. Come disse Liebknecht, l’ala radicale si era polverizzata nel nulla. L’unica cosa a cui si poteva aspirare era dissociarsi pubblicamente, testimoniare che ancora esisteva qualcuno contrario alla guerra. Fu approvata una dichiarazione pubblica da mandare all’estero:
Ci vediamo quindi costretti ad assicurare i compagni stranieri che noi, e certo molti altri socialdemocratici tedeschi, vediamo la guerra, le sue cause, il suo carattere oltre che il ruolo della socialdemocrazia nella situazione attuale da un punto di vista che non corrisponde [a quello pubblicamente spiegato]. Per l’istante lo stato d’assedio non ci permette di sostenere apertamente la nostra posizione. [7]
Agli occhi dei più ingenui il 4 agosto apparve inizialmente come uno scivolone parlamentare. In realtà fu il salto di qualità definitivo della degenerazione del partito. Una volta giustificata la guerra, il passo che portava a difendere tutto il sistema che l’aveva generata era breve. Una parte del gruppo dirigente accarezzava addirittura l’idea di trasformare l’Spd in un partito borghese progressista. A fine agosto il deputato revisionista David auspicò al ministro degli Interni la creazione di una forza democratica nazionale di cui la socialdemocrazia avrebbe fatto parte a pieno diritto. Il 2 ottobre un altro deputato socialista Cohen-Reuss disse al segretario di Stato:
una forte maggioranza del gruppo parlamentare socialdemocratico si adopera fervidamente per fare del 4 agosto una svolta fondamentale per il partito. Si intende fare la pace con la monarchia e con l’esercito e si tende, con tutti i mezzi, a colmare il solco che divide in due il popolo tedesco. Ma l’ala destra del partito potrà prendere in mano la direzione dell’SPD solo se anche il governo darà da parte sua prova di comprensione. (…) Prevedo un’evoluzione del Partito socialdemocratico in senso monarchico, analoga a quella del Partito progressista… [8]
[1] Dati tratti da PIERRE BROUE’, Rivoluzione in Germania, Giulio Einaudi, Torino, 1977, p. 11-12.
[2] ROSA LUXEMBURG, La crisi della socialdemocrazia, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970.
[3] PETER NETTL, Op. Cit., p. 447.
[4] ROSA LUXEMBURG, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970. p. 446.
[5] PAUL FROLICH, Op. Cit., p. 245.
[6] ROSA LUXEMBURG, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970. p. 449.
[7] PETER NETTL, Op. Cit., p.451.
[8] GILBERT BADIA, Lo spartachismo Il movimento spartachista: gli ultimi anni di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Savelli, Roma, 1970.