“Il 4 agosto 1914 la socialdemocrazia tedesca ha politicamente abdicato e contemporaneamente è crollata l’Internazionale socialista. (…) Il crollo stesso è senza esempio nella storia di tutti i tempi. (…) la socialdemocrazia ammainò le vele e senza combattere cedette la vittoria all’imperialismo. (…) dopo 50 anni di ininterrotto sviluppo (…)  [il partito è] in tal modo svanito come fattore politico nel nulla.”[1]
Rosa Luxemburg


Il clima che si respirava in Europa era del tutto differente da quello di relativa calma che accompagna i parlamentari della sinistra moderata d’oggigiorno quando, comodamente seduti e lautamente pagati, votano a favore delle missioni imperialiste, magari in barba a manifestazioni di massa contrarie alla guerra e rischiando al massimo qualche commento acido da parte dell’editorialista di turno di qualche grande giornale. Nel 1914 il continente era attraversato da una profonda ondata di nazionalismo: manifestazioni di giubilo più o meno spontanee accompagnarono il primo invio dei soldati al fronte. Leggende di ogni tipo si rincorrevano per le strade: in Germania si disse che i francesi stavano avvelenando i fiumi o che studenti russi erano pronti a far esplodere bombe in tutte le città. Chi si opponeva al conflitto rischiava la censura, la galera e, in alcuni casi, la vita. I parlamentari bolscevichi che votarono contro la guerra furono immediatamente imprigionati.

Tutto questo non giustifica né il voto dei parlamentari dell’Spd, né quel gruppo piuttosto consistente di socialisti che passò da posizioni di estrema sinistra al più bieco nazionalismo. Semmai aiuta a comprendere lo stato psicologico in ci si trovò Karl Liebknecht in occasione del voto del 4 agosto. Prima di effettuare un semplice gesto di principio e affrontarne le conseguenze, aveva bisogno di tastare le reazioni all’interno del partito: non era forse meglio attenersi alla disciplina e portare la lotta politica tra la base degli iscritti? Come già spiegato, si trattò di un calcolo errato. Per questo il 2 dicembre, quando si presentò il secondo voto sui crediti di guerra, non ebbe alcun dubbio sul da farsi. Votò contro e coniò la celebre formula: “Il nemico principale è nel proprio paese”. Al Reichstag risuonò finalmente la verità:

Questa è una guerra imperialistica, una guerra per il dominio del mercato mondiale (…). La parola d’ordine tedesca: “contro lo zarismo” è servita (…) a mobilitare gli impulsi più nobili, le tradizioni rivoluzionarie e le speranze del popolo al servizio dell’odio sciovinistico. (…) La liberazione del popolo russo, al pari di quella del popolo tedesco, dovranno essere opera di quei popoli. [2]

A chi rinfacciò a Liebknecht una mancanza di disciplina, Rosa Luxemburg rispose sprezzante come la disciplina fosse dovuta nei confronti del programma del partito, non del suo apparato. La popolarità di Liebknecht fu immediata, il suo nome diventò sinonimo di opposizione alla guerra. Il quotidiano socialistal’Avanti, scrisse il 5 dicembre: “solo fra tutti ha riconfermato con il suo voto contro i crediti militari, che il socialismo non è morto!”. La visibilità guadagnata grazie alla sua posizione parlamentare si rivelò in seguito un’arma a doppio taglio. Liebknecht era dotato di un temperamento eroico come pochi, ma era assolutamente inadatto a mettersi a disposizione del paziente lavoro di costruzione di una corrente organizzata dentro il partito. Rosa, la quale fu subito legata a lui da profonda stima e affetto, lo descrisse così:

Forse Lei sa come egli vive da molti anni: sempre soltanto in parlamento, riunioni, commissioni, colloqui, sempre di fretta, sempre occupato nel saltare dal treno cittadino sul tram, dal tram nell’automobile, tutte le tasche piene di taccuini, nelle mani un fascio di giornali appena comperati che comunque non aveva il tempo materiale di leggere tutti, corpo e anima coperti di polvere della strada, eppure sempre col suo amabile sorriso giovanile sulle labbra. [3]

La reale forza organizzativa della sinistra del partito era molto lontana dalla popolarità di Liebknecht. E le circostanze oggettive non aiutavano certo a colmare questo gap. Nel febbraio del 1915 Rosa iniziò a scontare l’anno di prigione a cui era stata condannata in precedenza. Ciononostante riuscì a collaborare insieme a Mehring all’uscita della rivista Die Internationale. Nell’articolo La ricostituzione dell’Internazionale rispose all’ennesima trovata teorica di Kautsky.:

Kautsky (…) ha escogitato adesso una nuova teoria per giustificare e abbellire il crollo medesimo. Secondo questa nuova teoria l’internazionale dovrebbe essere uno strumento di pace, ma non un mezzo contro la guerra. (…) Questa teoria della castrazione volontaria, la quale crede di salvaguardare la virtù del socialismo col metterlo fuori causa nei momenti decisivi della storia, (…) fa i conti senza l’oste. [4]

L’Spd – spiegò Rosa – non aveva solo subìto passivamente la guerra. Con il suo voto favorevole il partito era diventato una colonna attiva del conflitto. La pace interna è infatti la condizione indispensabile per la guerra esterna. L’Spd, coprendo ideologicamente le vere ragioni della guerra, era il principale garante della pace tra le classi:

Le cose hanno una loro logica, anche quando gli uomini non vogliono averne. (…) la socialdemocrazia tedesca ha assunto una funzione storica molto importante: essa è diventata nella guerra attuale lo scudiero dell’imperialismo. Napoleone disse una volta: due fattori decidono dell’esito di una battaglia: il fattore “terrestre”, cioè il terreno, la qualità delle armi, le condizioni atmosferiche ecc. e il fattore “celeste” cioè le condizioni morali dell’esercito, il suo entusiasmo, la sua fede nella propria causa. Del fattore “terrestre” (…) si è curata soprattutto da parte tedesca la ditta Krupp di Essen; quello “celeste” viene in prima linea sul conto della socialdemocrazia. (…) I sindacati (…) hanno appeso alla parete ogni lotta salariale (…) la stampa socialdemocratica (…) usa i suoi giornali (…) per propagandare la guerra come causa nazionale (…) [Secondo Kautsky] Durante la pace vale all’interno di ogni paese la lotta di classe e all’esterno la solidarietà internazionale; in guerra vale all’interno la solidarietà delle classi e all’esterno la lotta tra i lavoratori dei diversi paesi. L’immortale appello del Manifesto comunista subisce pertanto un completamento essenziale e secondo la correzione apportatavi da Kautsy suona: “Proletari di tutti i paesi unitevi in pace e sgozzatevi in guerra!”. [5]

Durante la prigionia Rosa Luxemburg scrisse, sotto lo pseudonimo di Junius, l’opuscolo La crisi della socialdemocrazia in cui, tra le altre cose, polemizzò con l’idea che l’Spd, grazie ai propri “servigi” alla patria, si sarebbe guadagnata in seguito una lunga era di democrazia. La debolezza è un invito all’aggressione e l’Spd aveva dimostrato semmai alla classe dominante che, anche in caso di soppressione della democrazia borghese, essa non avrebbe mai intrapreso la strada della rivoluzione. A 18 anni dall’avvento al potere di Hitler  si trattava di una formulazione quasi profetica:

Con l’accettazione della tregua civile la socialdemocrazia rinnegò la lotta delle classi per la durata della guerra. Ma con ciò essa rinnegò la base della propria esistenza, della propria politica. Che cosa è ogni suo respiro, se non lotta di classe? (…) Ma col suo atteggiamento la socialdemocrazia ha messo in gravissimo pericolo, molto al di là della durata della guerra odierna, la causa della libertà tedesca, alla quale, secondo la dichiarazione del gruppo parlamentare, provvedono ora i cannoni di Krupp. Nei circoli dirigenti della socialdemocrazia si costruisce molto sulla speranza che dopo la guerra sia concesso alla classe lavoratrice un notevole ampliamento delle libertà democratiche e la parità dei diritti borghesi come ricompensa per il suo comportamento patriottico in guerra. Ma non si è verificato ancora mai nella storia che alle classi oppresse siano concessi i diritti politici dalle classi dominanti, come mancia per il loro comportamento gradito a queste ultime. Al contrario la storia è seminata di esempi in cui i dominatori mancano sfacciatamente di parola (…). In realtà la socialdemocrazia non ha assicurato un futuro ampliamento delle libertà politiche in Germania, ma ha dato una grave scossa a quelle esistenti prima della guerra. (…) Che [oggi sia dichiarata la legge marziale] (….) senza la minima lotta non soltanto da parte della stampa borghese, ma anche di quella socialdemocratica (…), senza alcun tentativo di una seria resistenza, questo fatto è del più profondo significato per i destini futuri della libertà tedesca. [6]

Intanto la sinistra dell’Internazionale iniziava faticosamente a riorganizzarsi. Nel settembre del 1915 si tenne la Conferenza di Zimmerwald che riunì i socialisti di tutta Europa rimasti contrari alla guerra. Si trattò di una riunione estremamente ridotta. Come ironizzò Lenin, i partecipanti si sarebbero potuti contenere in due carrozze di un treno. Nel gennaio del 1916  si riuscì a tenere un primo incontro della sinistra socialdemocratica tedesca. Erano presenti militanti, oltre che da Berlino, da Stoccarda, Francoforte, Lipsia, Dresda, Chemnitz, Jena, Brunswick, Dusseldorf, Brema e Amburgo. Furono approvate le tesi contro la guerra scritte da Rosa e fu deciso di fondare il gruppo Spartaco. Il 27 gennaio 1916 uscì il primo numero delle “Lettere politiche”. Così furono chiamati gli opuscoli divulgativi del gruppo, visto che ognuno di essi iniziava in forma di lettera: “Cari compagni, per vostra personale informazione, vi preghiamo di prendere nota delle seguenti comunicazioni. Saluti Comunisti. Spartaco”[7]

Quel paziente lavoro organizzativo di ricostruzione delle forze del marxismo ci appare oggi quasi avvolto da un’aura di eroismo. Ma non va dimenticato che per gli uomini e le donne che ne furono i protagonisti, tale attività fu spesso avvolta dal più completo anonimato, a contatto continuo con le normali preoccupazioni quotidiane. Così la descrisse la spartachista Kathe Duncker:

Non hai idea della vita che conduco. Da quattro giorni mi sento tutta indolenzita e non ho un momento di respiro. (…) Domani [lunedì], nuova riunione della direzione. Martedì, riunione della Commissione giovanile. Mercoledì, versamento delle quote, andrò a fare un resoconto a Sterlitz. Giovedì conferenza femminile a Lipsia; venerdì direzione centrale. E poi tutto il resto: la casa, i bambini, la spesa e io che sono sfinita! (…). Riunioni quasi tutte le sere (…). La cesta dei panni trabocca. Le difficoltà d’approvvigionamento aumentano di settimana in settimana. Tutto questo è senz’altro al di sopra delle mie forze. (…) Di uscire la domenica non se ne parla neanche; la sola cosa che vorrei è di dormire a sazietà, ma non ci riesco mai. (…) Non so più dove ho la testa, ho i nervi a pezzi. [8]

Nonostante fosse un piccolo gruppo, Spartaco era comunque l’unica opposizione di sinistra esistente alla guerra. E poteva contare sull’enorme fama di Liebknecht. Come ammise Kautsky: “Costui è oggi l’uomo più popolare delle trincee: tutti coloro che ritornano dal fronte sono unanimi su questo punto. Le masse insoddisfatte non comprendono nei dettagli la sua politica, ma vedono in lui l’uomo che opera per far cessare la guerra e, per loro, questo oggi è l’essenziale.” [9]

La tendenza di “centro” del partito iniziò quindi a risentire della pressione proveniente dal proprio fianco sinistro. Sempre Kautsky si espresse in questi termini: “Il pericolo che ci minaccia da parte degli spartachisti è grande. (…). Noi siamo il centro: dalla sua forza dipende che le forze centrifughe di destra e di sinistra vengano o no superate.”[10] Fu così che un settore stesso dell’apparato burocratico iniziò a spostarsi a sinistra, prima a parole e poi anche con qualche fatto. Nel febbraio del 1915, Karl Liebknecht non fu più l’unico a votare contro il bilancio di Stato: un altro parlamentare socialdemocratico si associò al suo gesto e trenta uscirono dall’aula. Infine a dicembre ventidue deputati dell’Spd votarono contro i crediti di guerra e venti si astennero.

La spaccatura dell’apparato era una spia significativa dell’ostilità crescente nei confronti della guerra. Con una tattica di fronte unico, gli spartachisti avrebbero avuto gioco facile a incalzare da sinistra il “centro”  del partito e a dimostrare col tempo la sua incoerenza. Ma Liebknecht era impaziente di differenziarsi il più rapidamente possibile dall’opposizione posticcia dei suoi nuovi compagni di strada. Il motto spartachista divenne “Fatti, non parole”. Così il primo maggio del 1916 fu organizzato un corteo in aperta sfida alla legge marziale. La sera di quel giorno migliaia di persone si radunarono a Berlino in un silenzio surreale, rotto solo dall’improvviso grido di Liebknecht “Abbasso la guerra! Abbasso il Governo!”. La polizia caricò subito il corteo, disperdendolo. Liebknecht fu tratto in arresto. Stessa sorte toccò a Rosa Luxemburg che da appena tre mesi aveva finito di scontare il suo anno di prigione. Sul piano della visibilità il corteo del primo maggio fu un successo indiscutibile: quando a giugno a Liebknecht fu condannato, a seguito della revoca dell’immunità parlamentare, a Berlino scesero in sciopero 26mila metalmeccanici. Ma il prezzo pagato era stato altissimo: il gruppo dirigente della sinistra era di nuovo in prigione. Contemporaneamente anche Rosa Luxemburg era stata condannata al carcere preventivo fino a data da stabilirsi. La compenetrazione tra la destra dell’Spd e l’apparato dello Stato era tale ormai che la stessa lotta di frazione dentro il partito era diventata questione di ordine pubblico. La carcerazione di Rosa fu nei fatti commissionata dal segretario politico dell’Spd Ebert, il quale disse al Ministro degli Interni:

Anche all’interno del nostro partito andremo certamente incontro a delle difficoltà. La guerra e la possente ripresa del movimento rivoluzionario in Russia indurranno il gruppo di Rosa a elaborare nuovi piani. (…) una volta rinchiusa in carcere, e una volta uscita dalla prigione, nella situazione di pace, [Rosa] si troverebbe di fronte ad un partito compatto, unito, nel quale per lei ci sarebbe ben poco da fare.[11]

 Ad ottobre la censura militare confiscò il Vorwarts e lo consegnò all’esecutivo del partito, visto che il giornale era considerato ancora troppo a sinistra. Esso era infatti contemporaneamente il principale organo di stampa socialdemocratico e il giornale del partito di Berlino dove gli spartachisti aveano un buon seguito. Così i vertici dell’Spd si avvalsero della preziosa collaborazione della legge marziale per effettuare un colpo di mano ed epurare la redazione.

Qual’era in un simile contesto la posizione di Spartaco riguardo alla tattica da adottare nei confronti dell’Spd? Aveva ancora senso la permanenza dentro il partito o forse era meglio intraprendere la via della scissione? Su questo punto specifico l’atteggiamento del gruppo fu sempre attraversato da una certa schizzofrenia e da profonde divisioni. Da un lato c’era la posizione di Jogiches e della Luxemburg. Prevedevano che al primo risveglio della lotta di classe le masse sarebbero di nuovo affluite dentro l’Spd: nonostante i suoi enormi tradimenti, infatti, il partito continuava ad essere l’organizzazione tradizionale del proletariato tedesco. Si trattava quindi di continuare a rimanervi dentro, non per fare alcuno sconto alla direzione, ma per mantenere a tutti i costi il contatto con le masse. Così spiegò Rosa Luxemburg:

L’impazienza e l’amarezza che oggi spingono molti dei migliori elementi a fuggire dal partito sono certo lodevoli e comprensibili; ma la fuga rimane la fuga, ed essa è un tradimento delle masse che, in balia della stretta soffocante degli Scheidemann e dei Legien, abbandonate alla borghesia, si dibattono e soffocano. Dalle piccole sette e conventicole si può “uscire” se non piacciono più per fondare nuove sette e conventicole. Il voler liberare l’intera massa dei proprietari da questo gioco della borghesia che è il più pesante e pericoloso con una semplice “uscita” che permetta di precederle con un coraggioso esempio su questa via non è null’altro che il prodotto di una fantasia immatura. Lo sbarazzarsi della tessera di partito come illusione di liberazione non è altro che il rovesciamento della venerazione della tessera di partito come illusione di potenza; le due cose non sono che i poli opposti del cretinismo organizzativo, questa malattia congenita della vecchia socialdemocrazia tedesca. [12]

Questa posizione era generalmente accettata dal nucleo spartachista di Berlino e avversata da diverse sezioni delle altre città tedesche. Ma sia nell’uno che nell’altro caso, ne discendeva un comportamento contraddittorio. Dovunque gli spartachisti tenevano un profilo scissionista senza preparare alcuna scissione. Inseguendo la logica del fatto eclatante si ponevano in continuazione fuori dal partito, predicando però la necessità di rimanervi all’interno. La formulazione di Liebknecht riassumeva in pieno tale contraddizione:

Dal basso verso l’alto! L’appello deve venir rivolto al maggior numero possibile di compagni nel partito e nei sindacati: alla lotta per il partito, per il bene del partito! (…) A questi servitori delle classi dominanti va rifiutato ogni sostegno finanziario: all’esecutivo e a tutte le istanze e ai funzionari che baciano gli stivali dei carrozzieri (…). I ceppi di questa burocrazia di partito vanno fatti saltare. La parola d’ordine non è scissione o unità, non è nuovo partito o vecchio partito, bensì riconquista del partito dal basso attraverso la ribellione delle masse, (…) non con le parole, ma con la ribellione nei fatti. [13]

La Lettera politica del 22 aprile 1916 si intitolava Lotta per il partito e lanciava lo slogan della riconquista del partito dal basso. Ma l’unica proposta concreta che ne emergeva era quella di cessare il pagamento delle quote e sottrarsi ad ogni forma di militanza, il comportamento classico di chi sta lanciando un’escalation scissionista: “Ma non un uomo, non un soldo per questo partito con il suo sistema, i suoi dirigenti che hanno tradito. Al contrario, contro di loro, lotta a coltello. E in questa lotta, chi non è con noi è contro di noi”. La posizione degli spartachisti aveva quindi due facce contraddittorie, era l’incredibile senso delle prospettive di Rosa Luxemburg condito dall’impazienza di Liebknecht e di tutti i giovani militanti spartachisti. E su questo punto specifico il gruppo fu preso drammaticamente in contropiede.

La stessa diminuzione di agibilità politica che colpiva gli spartachisti colpiva infatti anche la tendenza di centro. Anzi, forse quest’ultima ne risentiva anche in misura maggiore: per i funzionari critici perdere l’accesso al proprio stipendio, alle proprie cariche, alla carta stampata del partito, era una prospettiva ancora più insopportabile che mille anni di prigione per gli spartachisti. Per questo ai loro occhi il problema si pose subito in questi termini: o resa incondizionata o creazione di un nuovo partito su cui esercitare il proprio controllo. Fino a quel momento il centro si era limitato a registrare con i propri spostamenti a sinistra l’umore di ribellione che covava nel partito: all’improvviso iniziò a cavalcarlo e a fomentarlo. Convocò per il gennaio del 1917 una conferenza pubblica di tutta l’area critica del partito. La delegazione spartachista vi partecipò, ma divisa e con una posizione abbastanza contraddittoria. Così recitava la direttiva di Jogiches per i delegati:

L’opposizione deve continuare a far parte dell’attuale Partito socialdemocratico solo fino a quando non ne ostacoli l’azione politica autonoma. L’opposizione resta in seno al partito unicamente per combattere e ostacolare, passo a passo, la politica della maggioranza, per proteggere le masse contro la politica imperialistica svolta sotto la copertura della socialdemocrazia e utilizzare il partito come luogo di reclutamento per la lotta di classe proletaria antimperialista.

Jogiches poi proponeva correttamente la formazione di una corrente di sinistra organizzata dentro il partito, con una propria stampa e un proprio sistema di quote che le permettesse di autofinanziarsi e di essere indipendente dall’apparato. Ma cosa voleva dire la frase: l’opposizione deve continuare a far parte del partito solo fino a quando la direzione “non ne ostacoli l’azione politica autonoma”? Così il destino della tattica di Spartaco veniva lasciato in mano alle decisioni della burocrazia dell’Spd. L’eventuale uscita dal partito non veniva fatta dipendere dalle prospettive della lotta di classe, ma dal grado di autoritarismo che la direzione del partito avrebbe scelto di esercitare.  In fin dei conti la stessa posizione fu adottata dal centro, il quale alla Conferenza dichiarò: “Noi restiamo nel partito finché non possiamo condurvi la lotta di classe contro l’Esecutivo. Quando ne saremo impediti, non è nostra intenzione restarci. Ma noi non siamo per la scissione”[14]. Furono sufficienti due settimane perché l’esecutivo dell’Spd dichiarasse che con la conferenza l’area critica si era posta fuori dal partito: la scissione era quindi cosa fatta.

Nell’aprile del 1917 nacque così l’Uspd, il Partito Socialdemocratico Indipendente, con 120mila iscritti contro i 170mila rimasti nell’Spd. Lo scenario veniva così completamente stravolto e gli spartachisti si sentirono spiazzati dal rinnovato protagonismo della vecchia tendenza di centro. E’ evidente che l’Uspd nasceva anche per anticipare e prevenire la crescita di Spartaco. Non a caso Kautsky rivendicò: “Se noi (…) non fossimo apparsi e non avessimo dimostrato che esistevamo anche noi, l’opposizione irresistibilmente crescente sarebbe semplicemente finita tutta con Spartaco (…). se la gente di Spartaco è stata respinta sempre più indietro questo è merito nostro. In questo la destra non ci ha appoggiato, anzi, non ha fatto che favorire Spartaco”. Era altrettanto vero che una parte della burocrazia aveva aderito al nuovo partito con l’intento preciso di ancorarne il baricentro a destra, tanto che vi aderì addirittura Bernstein. Ma tutto questo era solo un lato della medaglia.

L’Uspd era infatti una cornice potenzialmente più avanzata dove far crescere una tendenza marxista a danno delle burocrazia. Non solo perché il nuovo partito nasceva su posizioni formalmente più a sinistra, ma anche perché era dotato di una burocrazia molto più debole. In reazione all’autoritarismo dell’Spd, vi vigeva una totale libertà di critica e di azione. Una corrente di sinistra compatta e abituata ad una seria lotta di frazione avrebbe potuto conquistarne rapidamente intere sezioni. Ma gli spartachisti non possedevano tali requisiti. Se il gruppo era diviso riguardo alla permanenza nell’Spd, si divise ancora più ferocemente riguardo all’entrata nell’Uspd.

Alcune sezioni spingevano per la formazione immediata di un proprio partito indipendente: se scissione doveva essere, tanto valeva farla per creare direttamente il partito comunista. Erano di questa opinione il gruppo di Brema e di Amburgo che lanciarono l’appello per la creazione di un’organizzazione rivoluzionaria. Se tornarono sui propri passi, fu solo per l’enorme autorità che riconoscevano al gruppo di Berlino. Così si espresse l’organizzazione di Brema: “L’estrema sinistra è costretta a prendere un’importante decisione. La responsabilità maggiore spetta al “gruppo internazionale” [gli spartachisti di Berlino] poiché – nonostante tutte le critiche che siamo obbligati a rivolgergli – dobbiamo riconoscere che esso costituisce il gruppo più attivo.”[15] Gli spartachisti dunque non si consideravano un’unica organizzazione ma una federazione di gruppi locali.

La verità è che essi stessi avevano maturato una serie di posizioni politiche sbagliate come reazione rabbiosa e confusa all’esperienza maturata nell’Spd. La burocratizzazione del vecchio partito veniva fatta discendere solo da problemi di natura organizzativa. Ed era su questo piano che si cercavano gli strumenti per vaccinare la nuova organizzazione da qualsiasi futura degenerazione. In risposta allo sbandamento nazionalista delle sezioni dell’Internazionale, si teorizzò la massima disciplina internazionale: “Il dovere di eseguire le decisioni dell’Internazionale precede ogni altro dovere organizzativo. Le sezioni nazionali che agiscono in contrasto con le sue decisioni si collocano automaticamente all’esterno dell’Internazionale.” Mentre sul piano nazionale tutti i mali furono fatti discendere dal “centralismo” del vecchio partito. Quando Rosa Luxemburg volle discutere di un’unica piattaforma politica da far adottare a tutti i gruppi aderenti a Spartaco, Liebknecht la rimproverò:“Troppo meccanico-centralistico. Troppa “disciplina”, troppa poca spontaneità”. Alcune sezioni lanciarono la parola: “tutti dirigenti”, teorizzando il rifiuto di eleggere democraticamente dei responsabili per estirpare “i capi” dal movimento operaio. Altre iniziarono ad elaborare il superamento della divisione tra partito e sindacati per combattere l’opportunismo delle direzioni sindacali.

In una sola frase: veniva completamente sottovalutata la base politica su cui si era formato il burocratismo e si cercava di corazzare la nuova organizzazione di difese puramente organizzative. Il risultato fu semplice: il gruppo rimase sempre e soltanto un coacervo di sezioni locali incapaci di una pratica unitaria. Il lavoro scontò subito tali limiti, visto che le sezioni di Brema, Amburgo, Francoforte sul Meno, Dresda e Duisburg decisero di non aderire all’Uspd. Ma questo era niente a confronto dello scotto che si sarebbe dovuto pagare durante i futuri processi rivoluzionari. E che simili processi fossero all’orizzonte fu improvvisamente annunciato dal più grande assalto al cielo mai tentato dal proletariato internazionale: lo scoppio della rivoluzione russa.


[1]     ROSA LUXEMBURG, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970. pp. 413-426.

[2]     GILBERT BADIA, Op. Cit.,. p.34.

[3]     PETER NETTL, Op. Cit., p.468.

[4]     ROSA LUXEMBURG, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970. pp. 413-426.

[5]     Ibidem. C’è chi fu capace di trovare delle differenze tra Rosa Luxemburg e Lenin anche riguardo a quest’articolo. La prospettiva che la Luxemburg vi sviluppava – la riconquista dal basso dell’Internazionale – non lo convinceva a pieno. Ma si trattava di una sfumatura tattica. La comparsa di Die Internationale fu accolta da lui come un vero e proprio spiraglio di luce:“[riviste] autenticamente internazionaliste (…) [come Die Internationale] non hanno avuto nessun bisogno di proclamare il loro “atteggiamento amichevole” verso i rivoluzionari, né la loro “separazione completa da tutte le varietà di socialnazionalismo”; esse hanno semplicemente cominciato in modo tale che in verità “tutte le varietà” dell’opportunismo si sono messe a lanciare grida furiose mostrando così che le frecce che erano loro destinate li avevano ben colpiti.”

[6]     Ibidem.

[7]     GILBERT BADIA, Op. Cit., 1970. p.63.

[8]     Ivi, p. 74.

[9]     Ivi, p. 84.

[10]    Ivi, p. 54.

[11]    PETER NETTL, Op. Cit., p.452.

[12]    Ivi, p. 493.

[13]    Ivi, p. 475.

[14]    PIERRE BROUE’, Rivoluzione in Germania, Giulio Einaudi, Torino, 1977. p.80.

[15]    GILBERT BADIA, Op. Cit., p. 93.