1. La pandemia non ha generato nuove tendenze di fondo nell’economia capitalista. Ha esaltato, accelerato e distorto i processi in atto, generando nuove contraddizioni. E’ un mondo che affonda in un pantano caotico. Pieno di piani ipocriti di rilancio e riforma, di propositi vuoti come la “transizione verde”, di conflitti evidenti o dormienti. L’incompatibilità tra il grande capitale e l’umanità va rimarcata quotidianamente in ogni vertenza, in ogni lotta, in ogni dibattito pubblico. La bandiera dell’anticapitalismo va alzata con determinazione ovunque. In Italia questo compito si svolge nella frammentazione estrema delle forze classiste. Unificarle sarebbe l’unica leva, ad oggi, per mettere sulla mappa del dibattito pubblico un soggetto politico anticapitalista. Ma questa necessità è negata costantemente dalle direzioni dei singoli gruppi esistenti o perché guidati da una concezione movimentista o perché interessati solo alla propria esistenza autocentrata. Ma su questo avremo modo di tornare in altri ambiti e in altri testi.

2. E’ innanzitutto un mondo che riposa sopra una montagna di debiti. Il debito pubblico mondiale è aumentato di un sesto solo nel 20201. Il debito globale – pubblico e privato – è aumentato di 60mila miliardi di dollari negli ultimi quattro anni. Tale aumento è avvenuto quasi per metà nel 2020, quando il debito globale complessivo ha toccato il 355% del Prodotto interno lordo mondiale2. E’ in grossa parte il risultato delle spese in sostegno al grande capitale. Forse qualche Governo promuoverà qua e là insignificanti patrimoniali o qualche infima tassa sulle grandi ricchezze, ma solo allo scopo di effettuare qualche ritocco cosmetico. Ripagare i debiti generati per il capitale, tassando il capitale, equivarrebbe per il sistema a una pura partita di giro. Il debito ricadrà interamente sulle spalle dei ceti meno abbienti e del ceto medio rovinato. La retorica dei Recovery Fund e dei piani di resilienza prepara solo nuovi massacri sociali.

3. Tuttavia, l’indebitamento complessivo è ormai talmente elevato che non può nemmeno venir scalfito dai piani di austerità. Lo stato sociale è stato già ovunque largamente minato e l’entità complessiva del debito è tale che esso può essere solo rifinanziato contraendo nuovi debiti o bruciato con una catena di fallimenti. Il debito continuerà quindi a salire inesorabilmente. E il tema di “chi rimane con il cerino in mano”, di chi deve ripagarlo o al contrario di chi si rifiuterà di onorarlo verrà regolato con la forza: con scontri e conflitti tra le classi, tra gli Stati e tra le diverse frazioni del capitale. Non è un caso che la spesa militare mondiale continui a crescere. Nel 2020 si è attestata a 1981 miliardi di dollari, la cifra più alta dal 1988.

4. Il rifinanziamento del debito può avvenire solo creando costantemente nuova liquidità. Le Banche centrali stampano moneta, la pompano nel sistema a bassi tassi di interesse, incamerando a loro volta debito. Solo negli Usa nel 2020 la massa monetaria è aumentata del 26%3. Di fatto un quarto della moneta in circolazione è stata stampata nel corso dell’anno. Eppure contemporaneamente è crollata la sua velocità di circolazione4. In pratica la moneta passa da poche mani: affluisce sul mercato e rifluisce rapidamente a copertura dei vecchi debiti o verso nuove bolle finanziarie. Del resto il capitale va dove può valorizzarsi più rapidamente: nel settore finanziario. Così la liquidità viene messa in circolazione solo per tornare immediatamente nelle casse dei grandi istituti finanziari.

5. Una immissione così rapida di massa monetaria normalmente porterebbe a una esplosione inflazionistica. E in parte se ne vedono alcuni segnali. Ad aprile negli Usa i prezzi sono aumentati del 4.6%. Si tratta del maggiore aumento da 13 anni. Un dato che ha generato il panico nei mercati azionari. Una inflazione generalizzata costringerebbe le Banche centrali a chiudere il rubinetto della liquidità, aumentando i tassi di interesse e facendo crollare l’intero meccanismo che abbiamo descritto. I cosiddetti piani di espansione monetaria non sono un’opzione per il sistema. Sono un imperativo, una droga di cui non può più fare a meno.

6. Tuttavia non siamo ancora di fronte a uno scenario di inflazione generalizzata. E le ragioni sono tutt’altro che positive. In primo luogo l’economia non si “surriscalda” perché, come appena detto, la moneta immessa non finisce nella cosiddetta “economia reale”. In secondo luogo per via della gelata depressiva generata dalla crisi pandemica. Nel 2020 il tasso di disoccupazione è cresciuto del 6,5% e 33 milioni di persone hanno perso il lavoro. Nel 2009, dopo il crack dei mutui subprime, erano state 21 milioni. Nel 2020 si sono perse 12 miliardi di ore di lavoro a settimana5. Come patologie che logorano l’organismo ma che momentaneamente si compensano, debito vecchio e credito nuovo, stagnazione e inflazione si annullano vicendevolmente. Ma non si tratta un punto di equilibrio. E’ il caos di tendenze contraddittorie e contrastanti.

7. Se l’inflazione non è ancora generalizzata, esistono settori specifici dove i prezzi sono in evidente rialzo. L’indice Fao dei prezzi dei prodotti alimentari ad aprile è aumentato per l’undicesimo mese consecutivo, raggiungendo il punto più alto dal 20146. I prezzi delle materie prime non accennano a diminuire, un fatto di solito positivo perchè riflette l’aumento della domanda complessiva e una possibile ripresa economica. Ma se i prezzi delle materie prime crescono troppo rapidamente, senza sosta, possono diventare a loro volta un fattore di crisi7. Le aziende vedono lievitare i costi senza fare in tempo a ritoccare i listini.

8. Il rialzo della curva dei prezzi delle materie prime non è spiegabile solo con il rimbalzo economico successivo alla fine dei lockdown. E’ anche il risultato perverso del fiume di soldi pompato artificialmente nell’economia da Banche e Stati. Gli incentivi statali stanno drogando interi comparti produttivi, come quelli legati alla cosiddetta transizione verde o all’edilizia. Nel caso dell’edilizia, i prezzi lievitano velocemente e, visto ìl regime di sgravi fiscali, ricadono sulle casse statali. I costi vengono così socializzati due volte.

9. Fornitori e produttori sanno che gli incentivi statali non saranno eterni e non hanno nessun interesse ad aumentare in maniera strutturale la capacità produttiva o non ne hanno la possibilità a breve, come nel caso del rame che, elemento chiave per qualsiasi componente elettrico ed elettronico, ne manca all’appello per 10 milioni di tonnellate8. Colmare questo gap vorrebbe dire una esplosione di nuovi siti minerari, con buona pace dell’impatto ambientale. Ci sono settori invece come l’acciaio in preda da anni a una massiccia sovrapproduzione. Solo in Europa in dieci anni si sono persi 85.000 posti di lavoro nel settore e ancora lo scorso gennaio la Cina annunciava ulteriori tagli alla produzione. Eppure anche il prezzo dell’acciaio è tornato a crescere prepotentemente. Siamo al paradosso della coesistenza di una impennata dei prezzi per eccesso di domanda e di sovraccapacità produttiva dell’offerta.

10. L’aumento dei prezzi delle materie prime infatti non ha ragioni solo industriali. All’aspetto produttivo si è sommato quello finanziario. La liquidità in eccesso è interessata ad alimentare ogni genere di bolla: “c’è una componente industriale su cui si sta inserendo una componente di carattere finanziario, in quanto le commodities (i metalli in particolare) vengono viste dagli investitori come un antidoto contro uno scenario che sembra profilarsi di aumento dell’inflazione”9. In pratica le materie prime diventano il bene rifugio del capitale finanziario per tutelarsi dalle perdite generate dall’inflazione. Questo alimenta la bolla dei prezzi delle materie prime e a sua volta genera inflazione.

11. Un simile contesto alimenta ulteriormente le guerre commerciali per il controllo delle materie prime e le guerre commerciali alimentano il contesto di scarsità di materie prime e di rialzo dei prezzi. E’ il caso dei cosiddetti metalli rari – fondamentali per componenti elettroniche e batterie – di cui la Cina detiene attualmente il 90% della produzione e per i quali è in atto ormai una vera e propria guerra mondiale10.

12. La pandemia ha generato uno sbalzo di domanda nel mercato dell’elettronica al dettaglio. Durante il lockdown invece le case automobilistiche hanno dapprima annullato gli ordini di componenti elettroniche, salvo poi far impennare la domanda in conseguenza degli incentivi statali. Tutta la catena di approvvigionamento di chip e semiconduttori è andata in sofferenza. La mancanza di semiconduttori determinerà un taglio di produzione di 3,9 milioni di veicoli nel 2021, con una perdita annua di circa 110 miliardi di dollari.11 In teoria andrebbe allargata la capacità produttiva di chip. Colossi come Intel hanno in effetti previsto la costruzione di nuove fabbriche. Ma questo richiede tempo sia per il problema di materie prime di cui abbiamo parlato sia perché in un mondo capitalista normalmente affetto da sovrapproduzione, i capitalisti resistono a impegnarsi in investimenti importanti per nuova capacità produttiva. Il timore è che il settore sia momentaneamente drogato da una serie di bolle.

13. Il problema non è poi solo quanto produrre ma chi controlla la produzione in un settore strategico fondamentale12. Anche qua la situazione è ulteriormente aggravata dallo scontro tra blocchi imperialisti, tra Usa, Europa e Cina. Il 70% della produzione dei wafel di silicio necessari a produrre chip sono in mano a due aziende, una taiwanese e una sudocoreana13. Da lì la produzione si dirige in Cina, la quale vende componenti elettroniche ai concorrenti europei e americani con prezzi sempre più alti e resistenze sempre maggiori. Non a caso la creazione di una “via nazionale” all’approvvigionamento di metalli rari e alla produzione di chip e semiconduttori, è parte fondamentale dei vari piani di investimenti postpandemici americani e europei. Non si tratta solo di chi controlla il futuro del mercato di telefonini e auto. Si tratta a cascata anche dell’industria militare. Si tratta di una partita più generale per il controllo del flusso di informazioni e dati.

14. Tornando al punto, le spinte inflazionistiche sono al momento controbilanciate da altri elementi interni alla crisi del capitalismo. Se si generalizzassero, però, metterebbero in crisi i bassi tassi di interesse su cui si basa l’intera bolla del mercato finanziario. Quest’ultimo è in preda a oscillazioni febbrili, sull’orlo costante di clamorosi fallimenti. Come dice Bloomberg è “ubriaco di rischio”14. E’ bastata una misera stretta sul credito, “un meccanismo per limitare al 40% il tetto dei prestiti delle banche statali al settore immobiliare”, perchè a febbraio il colosso immobiliare cinese China Fortune15 crollasse sotto il peso di 815 milioni di dollari di debiti. A marzo un fondo di investimento sconosciuto Usa, Archegos, ha generato perdite per miliardi di dollari. Archegos era un “family office”, un fondo nato per amministrare il patrimonio personale di un singolo o di una famiglia. Tali family office sfuggono ai controlli e proprio per questo si stanno largamente diffondendo. 16 Se ogni nuovo fallimento rischia di generare un incontrollabile effetto a catena, il mercato è a sua volta malato anche dell’assenza di fallimenti. Il mare di liquidità tiene in vita aziende che semplicemente non esistono più. Sono le cosiddette compagnie zombie17. Si tratta di aziende tecnicamente fallite, che a malapena sostengono i debiti. Esse assorbono capitale a credito senza valorizzarlo. Solo in Italia nel 2018 hanno assorbito poco meno del 20% del capitale. Le imprese zombie erano il 4% negli anni ‘80 e sono arrivate ad essere il 15% nel 201718. Nel frattempo il fenomeno è ulteriormente esploso19.

15. Bolla del dot.com tra il 1997 e il 2000, crisi del 2001, crollo finanziario del 2008, crisi dei debiti sovrani 2010-2011 e infine crisi pandemica: un altro giro di giostra dello stesso processo e ad ogni nuovo giro il mondo risulta più impantanato in contraddizioni insolubili. Ad ogni nuovo giro l’ideologia dominante diventa sempre più bugiarda. Diventa sempre più “green” mentre ci si prepara a un nuovo stupro ambientale. Parla di rilancio e cooperazione internazionale, mentre si alzano nuovi muri e si cominciano nuove guerre. E ad ogni nuovo giro la ricchezza si concentra sempre più prepotentemente in poche mani. L’aumento della ricchezza registrata dai 10 più grandi miliardari durante la pandemia – non la loro ricchezza complessiva, ma solo l’aumento della ricchezza in nove mesi – sarebbe sufficiente a coprire l’intera spesa vaccinale mondiale20. Ad ogni crisi l’accumulazione della ricchezza accelera. Ci sarebbe bisogno di altro per dimostrare che è essa stessa il motore del capitalismo e che ogni sforzo del sistema è solo finalizzato a questo scopo?

16. Questo è il contesto, questi sono gli scopi con cui nascono gli enormi piani di investimenti successivi alla pandemia come il Recovery Fund e a cascata il Pnrr del Governo Draghi. Sono in grossa parte piani a debito il cui unico scopo è garantire la massimizzazione dei profitti a qualunque scopo. E se l’Unione Europea è stata costretta a dotarsi di un piano con alcune coordinate comuni è solo per rispondere all’accresciuta concorrenza degli altri blocchi mondiali. Su questo ci proponiamo di tornare nel dettaglio. Non sono piani di rilancio, né di ridistribuzione sociale e non sono tanto meno le pignatte d’oro su cui i dirigenti sindacali e riformisti si illudono di andare a contrattare le briciole. Sono piani la cui unica stella polare è la valorizzazione del capitale. E la valorizzazione del capitale trascina il mondo sempre più a fondo in un pantano di miseria, guerra e sfruttamento. Tutto il resto è propaganda. E per di più propaganda di bassa lega.

 

Note: