L’Italia esce dalla guerra con le ossa rotte, formalmente vincitrice ma in realtà con diversi problemi irrisolti, fra tutti la disoccupazione. Tra ex lavoratori dell’industria di guerra, soldati smobilitati, feriti e invalidi, a pagare il prezzo della guerra è senza dubbio la classe lavoratrice, che è chiamata ad uno sforzo notevole sia al fronte sia nella produzione bellica.

Il capitalismo però non ha nulla da offrire. Per quanto riguarda l’espansione territoriale, l’Italia acquisisce sì il Trentino – Alto Adige e Trieste, tuttavia Istria, Fiume e la Dalmazia vengono assegnate al Regno di Jugoslavia. Nasce così, all’interno dei movimenti nazionalisti, il mito della “vittoria mutilata”. Al di là dell’impresa di Fiume, guidata da D’Annunzio, e delle prime violenze fasciste, è importante notare che il nazionalismo gioca un ruolo decisivo a solamente a partire dai primi anni ’20.

Tra il 1919 e il 1920 il movimento operaio e contadino è protagonista di lotte, che coinvolgeranno inevitabilmente anche il PSI e la CGL. Il PSI nel 1919 arriva a 81000 iscritti e l’anno successivo sarebbe arrivato addirittura a 216000. Ottiene inoltre un risultato molto buono alle elezioni del novembre dello stesso anno, risultando il partito più votato con un milione e ottocentomila voti (156 seggi).

Il partito fin dal 1912 si è spostato su posizioni di sinistra e, pur non avendo le stesse posizioni di Lenin e dei bolscevichi, non appoggia l’intervento italiano nel conflitto. Inoltre la maggioranza massimalista simpatizza fin dall’inizio con la rivoluzione d’Ottobre. D’altra parte esiste una minoranza di “destra” capeggiata da Filippo Turati.

Filippo Turati

 Se uomini come Giacinto Menotti Serrati, Costantino Lazzari e altri si schierano coi bolscevichi, il vecchio leader riformista si sente rappresentato dai menscevichi. Dopo l’iniziale entusiasmo per la Rivoluzione di Febbraio, l’appoggio dei riformisti italiani diminuisce con il passare dei mesi, fino a cessare con la presa del potere da parte del partito di Lenin e Trotskij.

Indicativo in questo senso il carteggio Turati – Kuliscioff riportato da Ezio Mauro nel suo libro:

“Il coinvolgimento appassionato di Anna Kuliscioff non sopporta le riserve della stampa socialista nei confronti del governo russo e di Kerenskij, le corrispondenze di Angelica Balabanoff che dall’Italia è tornata in Russia nel maggio 1917. ‘Non so perchè molti dei tuoi diffidano della rivoluzione’; ‘è la cretineria del socialismo italiano’; ‘hai dovuto sostenere una vera battaglia in mezzo ai nostri omuncoli della Direzione; ‘leggendo l’Avanti stamattina ero furibonda, mi vergognavo di appartenere a un partito con un giornale così idiota, così ignorante, così chiuso a qualsiasi palpito non dico rivoluzionario, ma ad un semplice sentimento di umanità.’ ‘La Balabanoff manda all’Avanti le sue sbrodolature, tutte intonate alle direttive dei bolscevichi, una critica acerba, microcefala ai socialisti perchè hanno accettato la partecipazione nel governo provvisorio insieme ai rappresentanti della borghesia.’ ‘Ma con chi sta il giornale del partito? E’ con Lenin, minima parte del proletariato di Pietrogrado, oppure con i socialisti che ebbero più di mezzo milione di voti di fronte ai 117000 leninisti?’.”1

E ancora:

“Ma già all’inizio di maggio [Turati] nota che ‘in Russia le cose non vanno tanto bene’. A giugno aggiunge che ‘in Russia le cose vanno di male in peggio’. Finchè arriva l’Ottobre e dallo Smol’nyi Trotskij guida la conquista bolscevica della capitale e del potere. ‘Oggi vi è il crac di Pietrogrado con la deposizione di Kerenskij,’ scrive Turati, ‘che potrebbe essere il principio della fine della rivoluzione russa.’ ‘Rinunzio a pensare a quel che succede in Russia,’ conclude Anna Kuliscioff, ‘ andiamo forse incontro a convulsioni epilettiche di guerre civili per chissà quanti anni.’

Ma, poco dopo, attacca il sostegno socialista a Lenin: ‘Si può esaltare la rivoluzione russa ma non già schierarsi piuttosto coi bolscevichi o coi menscevichi quando si sa poco o nulla della dittatura terrorista dei leninisti. L’Armata Rossa decapita in strada i prigionieri dell’Armata Bianca buttando i cadaveri decapitati nella Neva o nella Mojka, insomma una guerra civile delle più terrorizzanti. Ora Trotskij potrà avere molti meriti, ma che il socialismo internazionale si schieri incondizionatamente in difesa di una frazione della rivoluzione russa, e certo la meno simpatica, mi pare un po’ precipitato e affatto non necessario’.”2

Ma il dibattito nel partito non riguarda solamente massimalisti e riformisti. In quegli anni all’interno dell’ala sinistra del PSI cominciavano a distinguersi altre posizioni.

L’ordine nuovo

 In particolare a Torino un gruppo di giovani socialisti capeggiati da Antonio Gramsci (gli altri erano Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e Umberto Terracini) decide di fondare la rivista “L’Ordine Nuovo”, il cui primo numero viene distribuito il Primo Maggio 1919:

“Poichè L’Ordine Nuovo non si propone di fare opera di accademica cultura, ma si preoccupa di fare del sano proselitismo socialista e si rivolge specialmente agli operai e ai giovani, i compagni sono pregati di scrivere in modo semplice, vivace e concettoso, che a un tempo stimoli le energie mentali dei lettori senza richiedere da essi uno sforzo inadeguato.

I collaboratori devono partire dal presupposto che, in fatto di cultura specifica, la mente dei lettori sia quasi una tabula rasa, e devono quindi rivolgersi al loro buon senso, possibilmente richiamandosi a quei più elementari concetti che sono ai lettori familiari, perchè offerti dalla loro propria limitata, ma spontanea esperienza.

Si fa appello alla buona volontà dei compagni, specialmente sui punti seguenti, che segnano il programma del giornale e anche i limiti (non assoluti) della collaborazione:

a) Lo studio delle correnti socialiste nella Terza Internazionale e dei tentativi di soluzioni socialiste ai problemi del dopoguerra, che hanno luogo specie in Russia e in Germania.

b) L’esame delle condizioni economiche e psicologiche italiane, che sono il sostrato sul quale pure si deve fondare lo Stato socialista.

c) I problemi più urgenti di nazionalizzazione o comunque di organizzazione socialista della produzione industriale, specie relativamente alle industrie dell’alimentazione, tessili, edili e dei trasporti.

d) Il problema delle materie prime e degli approvvigionamenti.

e) La nazione armata e la difesa della Repubblica sociale.

f) Il regime rappresentativo e amministrativo per la gestione diretta dei produttori e dei consumatori.

g) Il bilancio dello stato socialista e la riforma tributaria in rapporto alle dottrine collettivistiche.

h) Il problema psicologico e tecnico della piccola proprietà, che in Italia è parte così importante della struttura agraria.

i) Il problema della scuola.

Il giornale richiama insomma l’attenzione di tutti i socialisti sopra il problema essenziale della nostra rivoluzione, che è quello di avere un programma massimo che comprenda le realizzazioni più urgenti per dare un carattere nettamente socialista allo Stato che sorgerà e conciliargli le simpatie logiche delle masse proletarie, che ne costituiscono la sola garanzia di continuità e di saldezza contro tutti i pericoli di reazione interna e di eventuale pressione internazionale.”3

Fin dal primo numero il giornale chiarisce il suo scopo: una rivista militante, strumento di discussione utile per l’azione politica. Ma la vera intuizione del gruppo degli ordinovisti è la parola d’ordine dei consigli di fabbrica.

Poche settimane dopo, un articolo intitolato “Democrazia operaia” chiariva il concetto:

“Un problema si impone oggi assillante a ogni socialista che senta vivo il senso della responsabilità storica che incombe sulla classe lavoratrice e sul Partito che della missione di questa classe rappresenta la consapevolezza critica e operante. Come dominare le immense forze sociali che la guerra ha scatenato?

Come disciplinarle e dar loro una forma politica che contenga in sé la virtù di svilupparsi normalmente, di integrarsi continuamente, fino a diventare l’ossatura dello Stato socialista nel quale si incarnerà la dittatura del proletariato? Come saldare il presente all’avvenire, soddisfacendo le urgenti necessità del presente e utilmente lavorando per creare e “anticipare” l’avvenire?

Questo scritto vuole essere uno stimolo a pensare e ad operare; vuole essere un invito ai migliori e più consapevoli operai perché riflettano e, ognuno nella sfera della propria competenza e della propria azione, collaborino alla soluzione del problema, facendo convergere sui termini di esso l’attenzione dei compagni e delle associazioni. Solo da un lavoro comune e solidale di rischiaramento, di persuasione e di educazione reciproca nascerà l’azione concreta di costruzione.

Lo Stato socialista esiste già potenzialmente negli istituti di vita sociale caratteristici della classe lavoratrice sfruttata. Collegare tra di loro questa istituti, coordinarli e subordinarli in una gerarchia di competenze e di poteri, accentrarli fortemente, pur rispettando le necessarie autonomie e articolazioni, significa creare già fin d’ora una vera e propria democrazia operaia, in contrapposizione efficiente ed attiva con lo Stato borghese, preparata già fin d’ora a sostituire lo Stato borghese in tutte le sue funzioni essenziali di gestione e di dominio del patrimonio nazionale.”4

Soviet

 Gramsci riprende quindi la concezione leninista del soviet come organismo di contropotere. Il problema viene quindi posto nella sua concretezza, a differenza dei massimalisti che, come vedremo, si limiteranno a parole d’ordine piene di retorica rivoluzionaria, senza però dare seguito alle dichiarazioni.

A Napoli invece era nata alla fine del 1918 la rivista “Il soviet”, su iniziativa di Amadeo Bordiga, un giovane appartenente all’ala sinistra del partito, il cui gruppo è organizzato in frazione a partire dal 1917 col nome di Frazione Comunista Astensionista. La sua area si distingue soprattutto per la battaglia per posizioni rivoluzionarie nel partito. Si può dire che più di ogni altro critica non solo i riformisti ma anche i massimalisti.

Se da un lato le critiche al gruppo dirigente socialista erano sacrosante, dall’altro lato si trattava di posizioni che nascevano da una certa impazienza e un certo settarismo:

“Occorre notare che noi non siamo in rapporti di collaborazione coi movimenti fuori dal partito: anarchici e sindacalisti, perché seguono principi non comunisti e contrari alla dittatura proletaria; anzi, essi accusano noi di essere più autoritari e centralizzatori degli altri massimalisti del partito.

E’ necessario in Italia un complesso lavoro di chiarificazione del programma e della tattica comunista a cui noi dedicheremo tutte le nostre forze. Se non si riesce ad organizzare un partito che si occupi unicamente e sistematicamente della propaganda e preparazione comunista nel proletariato la rivoluzione potrà risolversi in una sconfitta.

Sull’opera tattica, e specie in merito alla costituzione dei Soviet, ci pare che si stanno commettendo errori anche da nostri amici, col pericolo che tutto si limiti ad una modifica riformistica dei sindacati di mestiere. Si lavora infatti alla costituzione di comitati d’officina, come a Torino, riunendo poi tutti i commissari di una data industria che prendono la direzione del sindacato professionale col nominarne il comitato esecutivo. Si resta cosi fuori dalle funzioni politiche dei Consigli operai a cui occorrebbe preparare il proletariato – pur essendo, secondo noi il problema più importante quello di organizzare un potente partito di classe (comunista) che prepari la conquista insurrezionale del potere dalle mani del governo borghese.”5

Bordiga esprime qui una posizione che si contrappone totalmente a quella di Gramsci e degli ordinovisti, non cogliendo in questo modo il potenziale ruolo rivoluzionario dei consigli di fabbrica. Ed è una cosa abbastanza singolare per il direttore di una rivista che si chiama “Il soviet”.

Allo stesso modo Bordiga sosterrà l’astensionismo parlamentare, posizione criticata da Lenin ne “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”.

Abbiamo fin qui solamente accennato alle posizioni dei massimalisti, che saranno protagonisti, purtroppo in negativo, del biennio rosso. Per quanto il gruppo dirigente del PSI non abbia esattamente le stesse posizioni degli ordinovisti o del gruppo di Bordiga, non si può certo dire che mancasse l’entusiasmo per la rivoluzione russa o l’appoggio incondizionato ai bolscevichi nelle loro dichiarazioni.

Tuttavia i massimalisti non sono mai in grado di dare una applicazione pratica ai loro roboanti proclami. Il momento della rivoluzione viene costantemente rimandato. Il periodo tra il 1919 e il 1920, il cosiddetto “biennio rosso”, è una dimostrazione dell’inadeguatezza del gruppo dirigente socialista.

Nel febbraio del 1919, in seguito ad un accordo tra FIOM e AMMA (organizzazione padronale metalmeccanica) vengono istituite le commissioni interne, formate esclusivamente da membri nominati dal sindacato come massima concessione possibile da parte dell’AMMA in quel momento. L’obiettivo degli imprenditori metalmeccanici è di bloccare qualsiasi iniziativa che possa portare alla formazione di organismi simili ai soviet russi.

Ma il lavoro del gruppo ordinovista dà i suoi primi frutti già nell’estate del 1919, con i primi scioperi a sostegno della Russia bolscevica. I giovani socialisti torinesi sono però gli unici ad orientarsi ai consigli di fabbrica. Ricorderà Gramsci qualche anno dopo:

“La posizione dell’Ordine Nuovo consisteva essenzialmente in ciò: 1. nell’aver saputo tradurre in linguaggio storico italiano i principali postulati della dottrina e della tattica dell’Internazionale Comunista: negli anni 1919 – 20 ciò ha voluto dire la parola d’ordine dei consigli di fabbrica e del controllo della produzione, cioè l’organizzazione di massa di tutti i produttori per l’espropriazione degli espropriatori, per la sostituzione del proletariato alla borghesia nel governo dell’industria, e quindi, necessariamente dello stato; 2. nell’aver sostenuto in seno al Partito Socialista, che allora voleva dire la maggioranza del proletariato, il programma integrale dell’Internazionale Comunista e non solo una qualche sua parte.”6

Per ragioni diverse tutte le altre componenti del partito contrastano le posizioni degli ordinovisti:

“Le posizioni dell’Ordine Nuovo sono osteggiate dai riformisti della Confederazione come nuova forma di anarco – sindacalismo, Serrati considera un’aberrazione porre sullo stesso piano gli operai iscritti al partito e al sindacato e i non organizzati, Bordiga rimprovera di sottovalutare il problema dei problemi, la conquista del potere politico centrale e teme – come abbiamo visto – che i consigli operai, perdurando il regime capitalistico, si trasformino in un organo corporativo, di ‘arrampicamento riformista’.”7

Se da un lato è comprensibile l’avversione dei riformisti, si nota qui l’errore dei massimalisti la cui mozione verrà appoggiata dagli ordinovisti nel Congresso di Bologna nell’autunno 1919. I proclami del gruppo dirigente del PSI, anche nel congresso del partito, rimangono vuota retorica a fronte di un anno che si chiude con un totale di 14 milioni di giornate di sciopero e l’occupazione di 15000 ettari di terra da parte dei braccianti.

Il padronato però non resta certo a guardare. E’ il marzo del 1920 quando l’AMMA, per bocca di Agnelli, De Benedetti e Olivetti decide di reagire. La commissione interna delle Industrie Metallurgiche si oppone all’introduzione dell’ora legale, un operaio sposta quindi indietro le lancette dell’orologio. Vengono licenziati i tre membri della Commissione.

Guardie rosse

Inizia così lo “sciopero delle lancette”. L’AMMA, per tutta risposta, proclama la serrata.

I socialisti torinesi e la FIOM partecipano alla lotta a fianco degli operai. Il governo invia 50000 soldati. Si cerca di collegare la lotta con uno sciopero bracciantile del Piemonte, proclamando uno sciopero generale di tutte le categorie piemontesi per il 15 aprile. Gli scioperanti però non devono fronteggiare solamente il padronato e le forze dell’ordine, ma anche i propri dirigenti.

E’ in questa occasione che si manifesta l’aperta ostilità dei riformisti e dei massimalisti. Se la CGL si pronuncia contro lo sciopero, bloccando anche la sezione genovese del sindacato, la direzione del PSI viene spostata da Torino a Milano. Il gruppo dirigente del partito, che non perde occasione per lanciare dichiarazioni rivoluzionarie, decide coscientemente di allontanarsi dal centro della lotta. I lavoratori rimangono isolati.

La sconfitta porta con sé demoralizzazione. Quando al corteo del primo maggio la forza pubblica uccide due dimostranti, gli operai non reagiscono.

Nel rapporto di bilancio inviato all’Internazionale Comunista, Gramsci scrive:

“I metallurgici scioperarono un mese intero, le altre categorie dieci giorni; l’industria in tutta la provincia era ferma, le comunicazioni paralizzate. Il proletariato torinese fu però isolato dal resto d’Italia; gli organi centrali non fecero niente per aiutarlo; ma non pubblicarono nemmeno un manifesto per spiegare al popolo italiano l’importanza della lotta dei lavoratori torinesi; L’ “Avanti!” si rifiutò di pubblicare il manifesto della sezione torinese del partito. I compagni torinesi si buscarono dappertutto epiteti di anarchici e avventurieri.

In quell’epoca si doveva avere a Torino il Consiglio nazionale del Partito; tale convegno venne però trasferito a Milano, perché una città “in preda a uno sciopero generale” sembrava poco adatta come teatro di discussioni socialiste. In questa occasione si manifestò tutta l’impotenza degli uomini chiamati a dirigere il Partito; mentre la massa operaia difendeva a Torino coraggiosamente i Consigli di fabbrica, la prima organizzazione basata sulla democrazia operaia, incarnante il potere del proletario, a Milano si chiacchierava intorno a progetti e metodi teorici per la formazione di Consigli come forma di potere politico da conquistare dal proletariato; si discuteva sul modo di sistemare le conquiste non avvenute e si abbandonava il proletariato torinese al suo destino, si lasciava alla borghesia la possibilità di distruggere il potere operaio già conquistato.

Le masse proletarie italiane manifestarono la loro solidarietà coi compagni torinesi in varie forme; i ferrovieri di Pisa, Livorno e Firenze si rifiutarono di trasportare le truppe destinate a Torino, i lavoratori dei porti e i marinari di Livorno e Genova sabotarono il movimento dei porti; il proletariato di molte città scese in sciopero contro gli ordini dei sindacati.

Lo sciopero generale di Torino e del Piemonte cozzò contro il sabotaggio e la resistenza delle organizzazioni sindacali e del Partito stesso. Esso fu tuttavia di grande importanza educativa perché dimostrò che l’unione pratica degli operai e contadini è possibile, e riprovò l’urgente necessità di lottare contro tutto il meccanismo burocratico delle organizzazioni sindacali, che sono il più solido appoggio per l’opera opportunistica dei parlamentari e dei riformisti mirante al soffocamento di ogni movimento rivoluzionario delle masse lavoratrici.”8

Ma il movimento operaio non è ancora sconfitto definitivamente. Sul finire dell’estate l’occupazione delle fabbriche rappresenta il punto di lotta più alto sancendo altresì il definitivo tradimento del sindacato e, soprattutto, del partito.

Occupazione fabbriche

 Il mese di settembre si apre con l’occupazione delle fabbriche da parte di oltre mezzo milione di operai, in particolare nell’area del triangolo industriale di Torino, Genova e Milano. E’ un grande passo in avanti. Non si tratta più di una lotta locale, come quella di qualche mese prima: è tutto il Paese ad essere coinvolto.

Racconta Paolo Spriano nel suo libro “L’occupazione delle fabbriche”:

“La prima giornata passa tranquilla. Le maestranze fanno due turni di 12 ore (8 di lavoro e 4 di riposo). La sera “alle porte, sull’alto degli edifici, come su spalti di fortezza, hanno vigilato le nuove scolte ma senza allarmi ed incidenti degni di nota”. Soltanto alla Fiat Lingotto la polizia tenta un’irruzione per giungere in possesso di mitragliatrici ivi posizionate da tempo; se non che gli operai le hanno già dislocate in vari stabilimenti e la missione fallisce.

Quanto all’armamento operaio si spandono le notizie più disparate. Vengono descritti i preparativi che gli operai vanno svolgendo nei maggiori stabilimenti, “non solo di difesa, con fili elettrici carichi di corrente, reticolati, mitragliatrici già portate, ma anche preparativi di offesa per una eventuale azione contro la forza pubblica e per provocare qualche azione violenta”. Le notizie non mancano di esagerazione “ma si segue attentamente la situazione” – informa l’autorità prefettizia.

Il tratto caratteristico dell’occupazione a Torino si coglie però, sin dai primi giorni, nello sforzo di organizzare un “sistema” di gestione operaia delle fabbriche metallurgiche che assicuri il coordinamento della produzione, degli scambi del materiale, il rifornimento di materie prime, creando un comitato apposito presso la Camera del lavoro e varie commissioni di lavoro. La disciplina è assai rigorosa e nei primi giorni, fino alla domenica 5 settembre, la produzione è lenta ma continua nei reparti, l’ordine pubblico sostanzialmente alterato; nei pressi degli stabilimenti esso è “garantito” dalle guardie rosse.

[…]

La prima cosa che colpisce chi arriva a Milano è il grande numero di bandiere rosse che sventolano in tutte le ciminiere, su tutti i comignoli. In Torino, anche oggi, che siamo al quarto giorno di possesso, in giro per gli industri cantieri della periferia, i simboli esterni del fatto compiuto non sono molti. Qualche drappo rosso, qualche vedetta appostata sui muriccioli ma le forze sono concentrate nelle fabbriche occupate. La cosa di cui gli operai si occupano a preferenza è l’organizzazione tecnica del lavoro, sia in ogni singola officina, sia nel complesso dell’industria cittadina.

In effetti, al di là di una certa retorica di occasione, l’aspetto di concretezza è quello prevalente nella “città dell’automobile”. Già qualcuno, nei Consigli di fabbrica e presso il sindacato, comincia a chiedere che venga organizzata la vendita dei prodotti. La FIOM è contraria. “La produzione – dice il comunicato della sezione torinese – è della collettività e come tale deve essere amministrata dagli organismi superiori che rappresentano gli interessi di tutti”.”9

Nei primi giorni né il PSI, né la CGL si pronunciano fino al 10 settembre, quando viene convocata una direzione congiunta delle due organizzazioni. La direzione massimalista del partito, così come la direzione riformista del sindacato, in un gioco delle parti, finiscono per boicottare il movimento.

I massimalisti pongono ai voti l’estensione della lotta, secondo una prospettiva rivoluzionaria. I funzionari sindacali, capeggiati da D’Aragona, con la tipica codardia riformista si tirano indietro. I massimalisti hanno l’ultima occasione: avocare a sé, secondo un patto non scritto, il sindacato. Spaventati, decidono di non assumersi la responsabilità.

Ludovico D’Aragona

E’ il tradimento definitivo. Il governo Giolitti riprende in mano la situazione e, nel giro di due settimane, il movimento rientra. Ancora una volta i massimalisti dimostrano la loro natura: rivoluzionari a parole, riformisti nei fatti. Anche l’Internazionale condannerà il comportamento del PSI e della CGL. 10

Il gruppo dell’Ordine Nuovo prende definitivamente coscienza che le proprie intuizioni e la propria generosità non possono bastare. L’isolamento dei torinesi ha favorito l’ennesimo tradimento della direzione del partito.

Anche il gruppo di Bordiga, pur partendo da concezioni diverse, arriva alle stesse conclusioni. La militanza nel PSI è ormai giunta al termine. La costituzione della frazione comunista è il naturale approdo.

Si corre velocemente verso la scissione. Una scissione ormai inevitabile, che però nessuno dei protagonisti prepara.

 

Note:

1 Ezio Mauro op. cit., pagg. 66 – 67

2 Ezio Mauro op. cit., pagg. 67 – 68

3 “Programma di lavoro” pubblicato su “L’Ordine Nuovo”, 1 Maggio 1919

5 Lettera di Bordiga alla III Internazionale, 10 Novembre 1919 citata in Paolo Spriano, op. cit., pagg. 38 – 39

6 Antonio Gramsci “Il programma de l’Ordine Nuovo”, 1 – 15 Aprile 1924

7 Paolo Spriano, op.cit., pag. 50

10 Per ulteriori approfondimenti sul biennio rosso vi rimandiamo al percorso di lettura che abbiamo pubblicato sul nostro sito https://marxpedia.org/teoria/percorsi-di-lettura/1919-1920-il-biennio-rosso/ .