Settantacinque anni.

Tanto è trascorso da quel 25 aprile 1945 in cui il Comitato di Liberazione Nazionale proclamò l’insurrezione generale contro la dittatura fascista in Italia. Settantacinque anni durante i quali la commemorazione di quella data, riconosciuta ufficialmente come festa nazionale nel 1949, è avvenuta nelle strade, nelle piazze, attraverso cortei che hanno assunto connotati di massa in particolare nelle grandi città, con centinaia di migliaia di persone radunate tra musica, spezzoni, slogan, volantini: uno scenario impensabile, in questa sfortunata primavera 2020.

Il carattere eccezionale della situazione sanitaria ci impone di rimanere a casa e ricordare questo anniversario dal divano o, per i più fortunati, dal balcone e sono già tante le iniziative lanciate da ANPI e altre associazioni per tentare di far sentire la voce degli antifascisti nelle città svuotate dall’emergenza Covid. Se nelle prime fasi del lockdown i flashmob alla finestra sono state il tentativo di non perdere il contatto con l’esterno e combattere il senso di vuoto e solitudine, ora quelle stesse pratiche potranno essere veicolo di un messaggio di portata differente, e al posto dell’Inno di Mameli le strade risuoneranno delle note di Bella Ciao: un inequivocabile segno dei tempi.

Già, ma quali tempi? Nelle ultime settimane le pagine dei nostri quotidiani si sono svuotate della cronaca politica tradizionale per lasciare spazio alla sciagurata gestione dell’emergenza sanitaria. Mentre ci accingiamo a vivere il più anomalo dei 25 Aprile, con questo articolo vogliamo provare a riportare l’attenzione sull’evoluzione di un fenomeno strisciante, sempre presente anche se temporaneamente congedato dal dibattito, impercettibile e pericoloso quanto un virus: l’utilizzo politico del revisionismo storico.

 

La revisione della storia della Resistenza: una lunga storia

Cosa ci sarà mai da festeggiare il 25 aprile? Aveva ragione De Felice, la peggiore eredità che il fascismo ci ha lasciato è l’antifascismo.” – L’ex parlamentare Pdl Marcello De Angelis sul Secolo d’Italia, 25 aprile 2013[1]

La storia, come tutte le scienze sociali, è oggetto di continuo dibattito: con l’emergere di nuovi elementi, rimasti sepolti sotto le ceneri del tempo, è necessario rimettere in discussione la narrazione degli eventi e la loro interpretazione. Un principio cardine perfettamente comprensibile se applicato, ad esempio, alla scoperta di nuovi rilievi archeologici dell’epoca antica, alla luce dei quali è del tutto naturale la rilettura di fenomeni, abitudini, la riscrittura di intere pagine di storia. Di per sé, lo studio continuo e approfondito degli avvenimenti è una pratica non solo legittima, ma auspicabile.

Se dalle ere più lontane ci spostiamo verso la storiografia più recente, gli elementi a disposizione degli studiosi si modificano per qualità e quantità: a partire dall’epoca moderna la documentazione giunta fino a noi si fa sempre più fitta via via che i mezzi di comunicazione diventano più efficienti e duraturi. Alla ricostruzione della storia degli ultimi due secoli contribuiscono anche documenti fotografici e videografici in misura sempre maggiore. È, per dirla con una battuta, una storia più accessibile, di cui abbondano i resoconti e le testimonianze, anche dirette.

Lo studio storiografico, però, da solo non è mai sufficiente. Ci sono altri due aspetti fondamentali che vanno esaminati: da una parte, l’interpretazione dei fenomeni, la loro lettura e la corretta comprensione di cause ed effetti, di intrecci e relazioni; dall’altra, l’uso politico (e strumentale, come vedremo più avanti) che della storia viene fatto. È di questo secondo nodo che dobbiamo occuparci quando parliamo oggi di revisionismo storico: un uso “negativo” e distorto di ciò che la storia insegna.

Poiché la storia è un distillato di lotta di classe, il revisionismo può solo interessare i processi rivoluzionari, ossia quei processi che attentano il dominio di una classe sull’altra. Non esiste un revisionismo della storiografia dell’antico Egitto o dell’Illuminismo. Se pure esistesse, non avrebbe conseguenze nello scontro di classe. È precisamente per questo motivo che sono i fenomeni rivoluzionari del nostro paese ad essere stati sottoposti a una minuziosa opera di revisione da parte di molti studiosi. Che si tratti del Biennio Rosso, della Resistenza o dell’Autunno caldo non ha importanza: il messaggio generale che deve passare è l’impossibilità che questi fenomeni possano essere replicati, che abbiano valore generale per la situazione odierna. A seconda della matrice di classe e di orientamento e obiettivi politici di chi esercita questa opera di revisione, la riscrittura di questi processi può passare per una riabilitazione del nemico di classe o per un ridimensionamento delle possibilità rivoluzionarie.

Così il campo del fascismo è stato costantemente oggetto di riabilitazione, fin dal secondo dopoguerra. A partire dagli anni ’50, molti studi si sono succeduti nel tentativo di dare una rilettura di quanto avvenuto a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Volendo citarne uno tra i più noti e dibattuti, gli scritti di Renzo De Felice, pubblicati tra il ’65 e fin dopo la sua morte, avvenuta nel 1996, hanno messo in campo un ampio ventaglio di argomentazioni e interpretazioni volte ad evidenziare, tra le altre cose, il sostegno di massa di cui il fascismo avrebbe goduto fino al 1942-1943, ridimensionando il ruolo giocato dalle azioni di repressione sui lavoratori italiani esercitate dagli squadristi. De Felice fece scuola: secondo Indro Montanelli, “sul Ventennio fascista nessuno potrà più scrivere una riga senza consultare De Felice, nel quale c’è tutto. Tutto meno una cosa, purtroppo la più importante: l’uomo Mussolini, senza il quale del fascismo non si capisce nulla, perché il fascismo fu tutto e soltanto lui[2]. Tra i suoi allievi, troviamo anche Paolo Mieli. Tra i suoi oppositori, numerosi accademici che lo accusarono di revisionismo, ma non mancarono anche i movimenti studenteschi di sinistra, che spinsero al boicottaggio delle sue lezioni presso l’Università La Sapienza di Roma. Quali che fossero le intenzioni e la qualità della ricerca storica condotta da De Felice, è innegabile che la sua opera abbia contribuito a rifocillare di argomenti gli esponenti del revisionismo, dando il via a tentativi di riabilitazione della figura di Mussolini e di rilettura opportunistica del fenomeno fascista.

Non è questa, però, la sede in cui analizzare a fondo le controversie di stampo accademico-culturale che negli anni sono andate sviluppandosi. Ciò che davvero ci interessa è comprendere l’effetto dello sdoganamento del revisionismo sul dibattito politico. Quello della rilettura della storia sembra essere un vaso di pandora che, una volta aperto, riversa il suo mefitico contenuto su ogni cosa, dall’analisi alle rivendicazioni politiche e sociali. Alle sue conseguenze, dunque, dobbiamo la massima attenzione.

Secondo lo studio Eurispes[3] pubblicato nel gennaio 2020, il 15,6% degli italiani riterrebbe che l’Olocausto non sia mai accaduto e il 16,1% che non abbia prodotto così tante vittime come sostenuto e raccontato; quindici anni fa, la percentuale di italiani convinti che l’Olocausto fosse solo una favola malvagia era pari al 2,7%. Riportiamo un breve paragrafo della stessa ricerca:

“Al campione è stato chiesto quali affermazioni esprimono al meglio l’anima politica della maggioranza degli italiani. Trova un discreto consenso l’affermazione secondo cui “molti pensano che Mussolini sia stato un grande leader che ha solo commesso qualche sbaglio” (19,8%). Con percentuali di accordo vicine tra loro seguono “gli italiani non sono fascisti ma amano le personalità forti” (14,3%), “siamo un popolo prevalentemente di destra” (14,1%), “molti italiani sono fascisti” (12,8%) e, infine, “ordine e disciplina sono valori molto amati dagli italiani” (12,7%).”

Questi numeri sono in parte anche il risultato di una campagna orchestrata dalla destra, soprattutto attraverso i social, nel tentativo di presentare il regime di Mussolini come un regime popolare (si pensi al mito dell’INPS creata dal fascismo o dell’istituzione della tredicesima per tutti) ed efficiente (si pensi ad esempio al presunto successo nella bonifica del territorio italiano), caratterizzato solo da qualche piccola stortura.[4] Non è questa l’occasione in cui smontare punto su punto i falsi miti che intorno al fascismo si sono sviluppati negli anni; ci prendiamo solo il tempo di confutarne uno dei più eclatanti: la previdenza sociale in Italia nacque nel 1898 con la creazione della “Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai”, che sarebbe diventata obbligatoria nel 1919; la pensione sociale ed una serie di migliorie relative ai contributi, tuttavia, verranno istituite solo nel 1969— ossia a 24 anni dalla morte di Mussolini. Semmai, a Mussolini può essere attribuito un altro genere di intervento: quello di stabilire, nel 1926, che gli unici sindacati dei lavoratori sono quelli fascisti, e di dichiarare vietato qualsiasi sciopero.[5]

Prendiamo un’indagine statistica per quello che effettivamente è: uno studio su un campione rilevante, utile a comprendere le dimensioni numeriche del fenomeno, ma al quale è necessario affiancare un’analisi strutturata delle prospettive che tali numeri lasciano sul terreno. Il messaggio è semplice: la destra ha sfondato il terreno della memoria storica della Resistenza perché l’antifascismo in Italia è in crisi. Questa crepa non è stata divaricata solo dalla violenza delle incursioni mediatiche della destra. Affonda le sue radici, inaspettatamente, anche nel campo amico della storiografia della resistenza stessa.

 

La Resistenza tradita da racconti distorti

Esiste una correlazione tra l’ingresso delle teorie revisioniste nel dibattito pubblico e il modificarsi della coscienza politica, ed è una correlazione che viaggia in entrambe le direzioni. Non commettiamo, però, l’ingenuità di credere che questo fenomeno si riduca a una schermaglia tra accademici o, peggio ancora, a un fattore culturale. L’uso politico del revisionismo ha colpito i processi della Resistenza partigiana fin dagli albori. E questo corrisponde a una precisa volontà politica, che degli strumenti del dibattito storico si serve a proprio vantaggio. Ne sono un esempio i processi ai partigiani che si svolsero negli anni successivi alla fine della guerra. A questi si somma una narrazione della lotta di liberazione italiana che spesso toglie spazio al protagonismo operaio nella Resistenza, limitandosi a sottolineare il carattere guerrigliero, quasi mitologico, delle brigate partigiane nascoste tra le montagne. Se nulla si può negare degli atti eroici compiuti dagli antifascisti tra il 1943 e il 1945, questi da soli non bastano a spiegare gli esiti straordinari della lotta di liberazione. Sopra ogni cosa, non bastano a raccontare il carattere insurrezionale della Resistenza.

Il racconto della composizione di classe della lotta di liberazione partigiana è andato perdendosi nel tempo. Quel fronte che colpisce unito durante i giorni dell’insurrezione, e che comprende militanti comunisti, cattolici, democratici e liberali diventa il pretesto per raccontare un’Italia compatta sotto la bandiera dell’antifascismo e della democrazia borghese, dove le tensioni sociali sono superate in virtù della necessità di combattere il nemico comune. E la prima vittima di questo processo fu l’interpretazione della Resistenza come fenomeno rivoluzionario.

Fu innegabilmente la direzione del PCI la prima a “revisionare” la lettura della Resistenza per giustificare le proprie scelte, a partire dalla svolta di Salerno per finire alla condotta di Togliatti come ministro della giustizia nel primo dopoguerra. La decisione di ricondurre la battaglia per la resistenza sotto il cappello patriottico della liberazione nazionale venne presa già durante i duri anni della battaglia. In questo senso, è emblematico un passaggio radiofonico dello stesso Togliatti dell’estate del 1944:

“[…] Ricordarsi sempre che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo d’imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista o comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi saranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata l’Italia tutta, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di un’Assemblea Costituente.[6]

Con la svolta di Salerno, il PCI rinunciò coscientemente al proprio compito di egemonizzare dal punto di vista politico la battaglia all’interno del CNL, preferendo sedere al tavolo istituzionale. La scelta di perseguire la “via italiana al socialismo”, che abbandonasse la strada insurrezionale a favore di un graduale progressismo da perseguire attraverso le istituzioni liberal-democratiche, fu un punto di svolta essenziale per gli avvenimenti successivi. Com’è noto, il PCI partecipò alla costruzione dello Stato che sarebbe nato all’indomani della vittoria della Resistenza e contribuì alla stesura della Costituzione, ma non raggiunse mai il potere e il suo ruolo passò rapidamente a quello di partito di opposizione, nonostante il sostegno di cui godette fino al suo scioglimento. Fu anche quello il momento in cui si incrinò il racconto della storia della Resistenza rossa, con la lotta partigiana che si trasformava in “battaglia patriottica” anche dalle pagine de l’Unità.  

A rafforzare questo quadro smorzato della Resistenza, in tempi più recenti, troviamo anche il principale storico comunista italiano, Paolo Spriano, che dà legittimità a questa visione proprio contrapponendo la Resistenza a un altro fenomeno rivoluzionario, il Biennio Rosso:

Nessun fenomeno, nessun avvenimento del 1943-47, si presenta con una nettezza di scontro sociale, di ‘crisi rivoluzionaria’, che sia paragonabile alle agitazioni per il carovita dell’estate del 1919, agli scioperi di Torino del marzo-aprile 1920, alla stessa occupazione delle fabbriche, alla pressione organizzata di classe esercitata da operai e contadini italiani (pur non uniti tra loro) fin dall’immediata fine della guerra, per quasi due anni.”

E ancora:

In verità, nessuno studioso serio ha dato corpo alle fantasie sull’ ‘occasione rivoluzionaria’, di rivoluzione proletaria, offerta ma sciupata con la lotta di liberazione in Italia”.[7]

Ancora all’inizio degli anni ‘50 il dirigente socialista Pietro Nenni si sforzava di chiudere il dibattito sulle possibilità insurrezionali della Liberazione:

“Era una situazione rivoluzionaria o non lo era quella del 1945-46? La situazione era rivoluzionaria, ma nei limiti di una rivoluzione democratica con la partecipazione dell’insieme delle forze antifasciste e partigiane. Ma la prospettiva di una rivoluzione popolare e meno che mai proletaria con la presa violenta del potere, non ci fu mai. Bastava la presenza delle truppe inglesi e americane a renderla impossibile.”[8]

Ma davvero non si ebbe alcuna “occasione rivoluzionaria” nell’Italia resistente? Se guardiamo agli avvenimenti, i lavoratori che avevano visto le proprie condizioni materiali peggiorare drammaticamente durante il ventennio fascista – con l’inquadramento corporativista che non garantiva loro alcuna tutela, i ritmi di lavoro esacerbati dalle esigenze della produzione bellica e il razionamento – avevano dato vita, già nel marzo 1943, a scioperi che paralizzarono le fabbriche nel nord del paese. Da Torino, a Milano, a Genova gli operai dimostrarono che era possibile opporsi al fascismo e alla guerra. Furono ben 135 le agitazioni operaie che si registrano a partire da quella data. Dai primi stop alla produzione in alcune fabbriche torinesi alle industrie lombarde, liguri, venete, emiliane: scioperarono gli operai della Piaggio di Pontedera, della Fiat di Torino, della Falk e della Breda di Milano, delle fabbriche di porto Marghera e dei cantieri navali di Monfalcone e di Genova. A Milano scioperarono anche i tranvieri.

Ma il vento che fischiò in Italia dall’inizio della Resistenza nel 1943 e per i successivi 5 anni viene dimenticato, e si accantonano le analisi storiche sul ruolo giocato dalle borghesie europee e occidentali nelle strategie di spartizione delle sfere di influenza (con il blocco Occidentale da una parte e l’URSS dall’altra) e nello scongiurare il pericolo rivoluzionario. Il clima pre-insurrezionale che si respirò nell’Italia resistente, così come nel resto d’Europa, perde il suo posto nella storia, cedendo il passo a un generale senso di concordia e armonia sociale di cittadini in lotta contro il fascismo.

Con esso, si perde anche la connotazione repressiva e reazionaria del fenomeno fascista nel suo complesso, dipinto, nel corso degli anni, come un processo sostenuto dalle masse e degenerato solo in un secondo momento in violente aberrazioni, identificate soprattutto con le leggi razziali e i campi di concentramento. E in questa elaborazione diluita della storia, si spalancano le porte al mito del “grande statista” che “fece anche cose buone” e il cui unico errore fu quello di “allearsi con Hitler”, mentre i partigiani vengono dipinti come assassini.

Lo ricorda molto bene il collettivo di scrittori Wu Ming nel commentare il re di queste ricostruzioni revisionistiche, Gianpaolo Pansa:

La legittimazione e l’imprimatur da parte dei grandi media e della politica hanno incoraggiato i neofascisti a inventare sempre nuove bufale, ancora e ancora. Dalla fine degli anni Novanta, li abbiamo visti coniare storie di «eccidi partigiani» dei quali mai si era parlato, o aggiungere a storie vecchie dettagli sempre più macabri assenti dalle precedenti ricostruzioni. Inutile dire che tali aggiunte erano prive di pezze d’appoggio documentali: in queste storie, le fonti latitano e ci si affida alla «storiografia del nonno»: «Mio nonno raccontava che…»”

E ancora:

Veniamo al punto: uno dei massimi responsabili di tutto questo è stato Giampaolo Pansa. Nel 2003, il suo bestseller Il sangue dei vinti — che, come ha fatto notare Wu Ming 1 in Predappio Toxic Waste Blues, conteneva una menzogna già nel titolo — inaugurò una produzione di «oggetti narrativi male identificati» che usavano come fonti la memorialistica repubblichina sulla guerra civile, ne accettavano le ricostruzioni piene di buchi e aporie, e riempivano i buchi ricorrendo a tecniche letterarie ed espedienti vari.[9]

Giampaolo Pansa, scomparso pochi mesi fa e diventato un vero e proprio idolo per la destra. Il giornalista (poi collaboratore di “Libero”) scrisse una trilogia sui presunti crimini commessi dai partigiani ai danni di fascisti e popolazione civile. Il libro più famoso rimane senza dubbio quello qui citato dal collettivo Wu Ming, “Il sangue dei vinti”, opera che non verrà certo ricordata per il suo rigore storico. Piuttosto significativa in tal senso la scelta dell’autore di presentare come saggio storico un libro in cui la narrazione è affidata ad un personaggio fittizio che basa il racconto sui propri “ricordi” (naturalmente non supportati da alcuna verifica). Pansa giocò inoltre uno scherzo di cattivo gusto decidendo che il nome della protagonista dovesse coincidere con quello di una partigiana uccisa dai nazifascisti nel gennaio dal 1945: Livia Bianchi.[10]

Negli ultimi anni abbiamo assistito con sempre maggior frequenza agli appelli della destra reazionaria affinché il 25 Aprile cessi di essere la celebrazione della Resistenza partigiana e si trasformi in una giornata di “concordia nazionale”, di ricordo globale delle vittime, dei martiri e degli eroi della Seconda Guerra Mondiale. Puntuale come un orologio rotto, che segna l’ora giusta due volte al giorno, ogni anno si scatena la polemica contro il ricordo di una data brigata partigiana, mentre si moltiplicano provocazioni come quella del 24 aprile dello scorso anno, avvenuta in piazzale Loreto, quando un gruppo di ultras laziali neofascisti, gli “Irriducibili”, ha esposto uno striscione inneggiante a Mussolini[11]. L’ultima trovata, in ordine cronologico, è proprio di questi giorni: Fratelli d’Italia ha lanciato la proposta di trasformare il ricordo della Liberazione nella giornata in memoria delle vittime di tutte le guerre e del Covid, strumentalizzando, attraverso una diretta Facebook di Ignazio la Russa e l’appoggio di Paola Frassinetti, Isabella Rauti e Daniela Santanché, la tragedia sanitaria che ha travolto il mondo negli ultimi mesi per attaccare frontalmente il significato del 25 Aprile[12]. Mentre scriviamo, infine, l’hashtag #Mussolini è trending topic su Twitter.

Si tratta solo di alcuni degli episodi che si sono susseguiti negli anni, che testimoniano una precisa volontà politica di revisione dei processi storici e l’arroganza delle destre. Ma quale risposta viene data a questi fatti? Sono sufficienti l’indignazione istituzionale dei sindaci del PD, i comunicati di condanna dell’ANPI, il tamtam sui social per fermare la recrudescenza dell’ideologia fascista?

Qual è, in definitiva, il modello di 25 Aprile che potrebbe aiutarci a porre fine a questi attacchi?

 

Un 25 Aprile di lotta

Siamo antifascisti e respingiamo qualsiasi processo di revisione del periodo fascista ogni giorno dell’anno. Ma il 25 Aprile è e rimane e un’occasione per far sentire forte e chiara la voce di chi si oppone a ogni genere di aberrazione nazionalista, razzista e reazionaria. Il 25 Aprile che vogliamo non lascia spazio ad operazioni di conciliazione storica e ad appelli all’unità nazionale. È un giorno per ribadire la condanna politica nei confronti della destra xenofoba che in Italia si rende protagonista delle più perverse politiche nei confronti dei migranti. Un giorno per rimarcare la distanza da ogni populismo, per sfatare il mito degli italiani desiderosi di un “uomo forte” a guida della nazione. Il 25 Aprile è il giorno di chi rifiuta ogni rigurgito fascista cento anni dopo la sua prima comparsa.

Ma questo non basta. Conosciamo fin troppo bene le dinamiche di quella piazza così spesso baciata dal sole, quel lungo percorso che quest’anno ci è precluso: una festa colorata, cavalcata da sindaci e istituzioni, un corteo che si vuole privare del suo carattere di lotta per trasformarlo in una passeggiata all’insegna dell’armonia fra le parti sociali. Per un marxista la verità è sempre rivoluzionaria, e il giorno della Liberazione è un’opportunità per ribadire il carattere insurrezionale della lotta partigiana, che non voleva solo sconfiggere il nazifascismo, ma cambiare profondamente la società, estirpandone le differenze di classe. Per combattere il revisionismo serve anche tornare a parlare del protagonismo dei lavoratori nella battaglia partigiana, il coinvolgimento operaio nelle città travolte dagli scioperi, la volontà di utilizzare la lotta di liberazione nazionale come primo tassello per costruire un nuovo modello di società in senso socialista. Chiudere gli occhi di fronte a questa pagina della storia, preferendo il racconto di una sollevazione volta solo a ripristinare le libertà democratiche e che non intaccasse la società capitalista, significa privare la Liberazione del suo significato più profondo. Significa, in altri termini, accettare una versione della storia distorta, parziale, in nome di un compromesso tra le classi che non era e non sarà mai possibile.

Dalle mura delle nostre case, anche quest’anno vi auguriamo un buon 25 Aprile di lotta, compagni. Possa la storia non coglierci mai impreparati.

 

Note:

[1]L’Espresso, 1 agosto 2017 (https://espresso.repubblica.it/attualita/2017/07/27/news/quanti-politici-amano-mussolini-1.306946)

[2] Indro Montanelli, «Le Nuove Stanze», Rizzoli, Milano 2001, pp.80-81

[3] https://eurispes.eu/news/eurispes-risultati-del-rapporto-italia-2020/

[4] Cfr. Francesco Filippi “Mussolini ha fatto anche cose buone – Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” ed. Bollati Boringhieri

[5]https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/04/25/25-aprile-le-bufale-del-fascismo-pensioni-bonifiche-case-stipendi-le-cose-buone-che-mussolini-non-ha-mai-fatto/5122512/

[6] La resistenza perfetta, Giovanni De Luna, Feltrinelli editore

[7] Paolo Spriano, Sulla rivoluzione italiana, Einaudi, 1978

[8] Pietro Nenni, “Intervista sul socialismo italiano”, a cura di Giuseppe Tamburrano, Bari, 1977

[9] https://medium.com/@nicolettabourbaki/in-morte-di-giampaolo-pansa-2c1827d0d260

[10] https://web.archive.org/web/20070205134912/http://www.anpi.it/patria_2004/02-04/19_LETTERA_DONNE.pdf

[11] https://milano.corriere.it/19_aprile_24/striscione-neofascista-ultra-laziali-onore-benito-mussolini-2bffae48-668c-11e9-b785-26fa269d7173.shtml

[12]https://www.repubblica.it/politica/2020/04/18/news/fratelli_d_italia_sul_25_aprile_ricordiamo_i_caduti_di_tutte_le_guerre_e_del_covid_la_canzone_del_piave_al_posto_di_bella-254391375/?ref=RHPPLF-BH-I254396992-C8-P8-S1.4-T1