Il 27 aprile del 1937 moriva Antonio Gramsci dopo dieci anni di sepoltura nelle carceri fasciste. Ma una sepoltura ancora peggiore doveva riservargli la successiva storiografia. I Quaderni del carcere risentirono inevitabilmente delle condizioni in cui furono elaborati. In condizioni mentali e fisiche instabili, nell’isolamento umano e politico, Gramsci non scrisse cosa e come voleva, ma come poteva. I Quaderni contengono notevoli intuizioni politiche e teoriche ma questa è e rimane la loro natura fondamentale. Eppure una vera e propria scuola di “esegesi” dei testi del carcere si è venuta sviluppando negli anni. La storiografia riformista li usò per svuotare il pensiero di Gramsci da ogni significato rivoluzionario, quella togliattiana per attribuirsi un contenuto rivoluzionario che non aveva. Entrambe li usarono in fin dei conti per oscurare Gramsci negli anni del pieno sviluppo della propria attività politica, dal 1919 al 1927. Sarà questo, al contrario, il periodo sul quale ci concentreremo.

Chi cerchi in questo nostro scritto l’ennesima dissertazione filologica sull’egemonia gramsciana o sul termine casematte è perciò destinato a rimanere deluso. Politicamente non ci definiamo gramsciani e non vediamo che senso avrebbe farlo. Gramsci fu un marxista, un militante della Terza Internazionale. L’originalità del suo pensiero fu prima di tutto il tentativo di applicare il metodo leninista all’Italia degli anni ’20. Lo fece alcune volte bene, altre sbagliando. La sua vita non fu priva di errori, come non lo è quella di nessuno. Tuttavia non fece mai dei propri errori un sistema, come al contrario accadde con i successivi dirigenti stalinisti del Pci. Gramsci sta a loro come l’aquila sta ad una gallina: può capitare che un’aquila voli basso come una gallina, ma non capiterà mai che una gallina voli alto come un’aquila.

 

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Gramsci in carcere