
Perché il capitalismo non può essere riconvertito.
Venerdì 29 novembre il mondo vede ancora una volta uno sciopero globale a difesa del clima. È il quarto da quando è nato il movimento Fridays For Future. Il movimento ha dalla sua l’attenzione internazionale. Non esiste dichiarazione, lettera, evento, presidio o corteo locale che non venga riportato dalla grande stampa. L’apparizione di Greta Thunberg al summit sul clima dell’Onu dello scorso settembre ha avuto un’eco globale. Il suo “Come osate?!” rivolto ai governanti di tutto il mondo è diventata un’espressione comune per un’intera generazione. “I ragazzi del clima” sono praticamente al centro dell’attenzione mainstream.
Se c’è una conquista che il movimento può vantare è dunque quella di aver rotto il velo di silenzio attorno alle lotte ambientali. Che il pianeta sia malato è senso comune tanto quanto la presenza della crisi economica dal crollo delle borse del luglio 2008. Esiste un prima e un dopo tutto questo.
Intendiamoci, questo movimento non ha fatto tutto da solo. La mobilitazione giovanile globale a cui stiamo assistendo è stata preparata dalla radicalizzazione del movimento Occupy. In Italia il movimento studentesco è stato sconfitto, almeno momentaneamente, sul terreno scolastico, ma ha animato tanto i Pride quanto le mobilitazioni antirazziste contro il primo governo Conte. La mobilitazione attorno al clima ha avvolto questa radicalità in potenza della consapevolezza di non avere molto tempo per salvare il pianeta.
È un compito arduo, su un terreno che praticamente non ammette mediazione. È possibile convertire il pianeta a metà? Si può rispettare solo parte degli Accordi di Parigi del 2015? È possibile imporli solo a una metà del globo? Quanto si può procrastinare la fine dalla dipendenza di combustibili fossili? Sono tutte domande che ammettono una risposta implicita, ormai piuttosto assodata da centinaia di report e articoli scientifici.
Un compito del genere impone al movimento un corpo di rivendicazioni adeguato. D’altronde, uno strumento è fatto per uno scopo e impugnando un martello di gelatina si pianterebbero ben pochi chiodi. Non si tratta dunque di capire se il clima mondiale collasserà o entro quando accadrà. Né si tratta di capire se il sistema economico in cui viviamo attualmente, il capitalismo, sia adatto di per sé a occuparsi di questo problema. Se così fosse, non sarebbe necessario tutto questo movimento e dovremmo semplicemente lasciar lavorare i governanti.
Si tratta di capire se è possibile vivere in una società come questa con i suoi difetti mitigati. Se il denaro è il combustibile su cui brucia il pianeta, come scrive efficacemente l’attivista ambientalista Bill McKibben, è possibile dirottarlo su un terreno ecologico? Le multinazionali e l’aria pulita possono vivere sullo stesso pianeta? La pressione internazionale è sufficiente a dirottare investimenti secolari nei combustibili fossili su altri terreni rinnovabili? Soprattutto, tutto questo è possibile semplicemente imponendo delle regole al sistema?
Detto altrimenti, vorremmo cercare di comprendere se è possibile trovare un nuovo accordo sul clima, un Green New Deal, che metta d’accordo proprietari e lavoratori, governi e istituzioni, banche e investimenti. Ce la farà un nuovo Piano Marshall per il clima, fatto di investimenti pubblici, a scolpire un nuovo mondo? O esso dovrà essere costruito da zero, su basi interamente nuove?
La seduzione del Green New Deal
Green New Deal è un termine molto masticato negli ultimi mesi, anche nella sinistra italiana. Coniato nel febbraio 2019 dalla deputata democratica USA Alexandra Ocasio Cortez e dal senatore Ed Markey, il termine è un omaggio al New Deal che il presidente Franklin Delano Roosvelt varò dal 1933 al 1937 per portare fuori il capitalismo americano dalla sua prima grande crisi, scoppiata nel 1929.
Era, il New Deal, un insieme di misure basate sul controllo federale delle banche e sugli investimenti pubblici per rilanciare gli investimenti, garantendo che il sistema finanziario avesse sempre una liquidità sufficiente a governare il sistema.
Pur potendo attingere da forti risorse pubbliche, iI piano funzionò con alterne fortune fino al 1941, quando l’attacco alla base americana di Pearl Harbor costrinse il capitalismo americano ad entrare in guerra per difendere i propri affari internazionali. La seconda guerra mondiale diede un impulso senza precedenti all’industria americana, la cui produzione rimase intatta e immune da bombardamenti. Più che gli aiuti di stato, fu questo a tracciare la vera ripresa dell’economia americana.
Il cuore della proposta denominata Green New Deal dei due esponenti del Partito Democratico americano è quello di riconvertire interamente l’economia americana a fonti rinnovabili entro 10 anni, di fatto dimezzando i tempi per il raggiungimento degli stessi obiettivi degli Accordi di Parigi. Ad assecondare il processo, la pianificazione di investimenti pubblici per l’introduzione dell’alta velocità ferroviaria, il riammodernamento del patrimonio edilizio pubblico statunitense, un accordo generale con i privati per la produzione di veicoli ibridi ed elettrici. Nell’intenzione di Cortez e Markey, un simile investimento richiederebbe una vera e propria mobilitazione nazionale di tutti i settori della società, capace di trainare l’intera economia americana con sé e di creare milioni di nuovi posti di lavoro.
Di fatto, la proposta del Green New Deal è una ricetta alternativa per l’indipendenza energetica americana. È un obiettivo strategico dell’economia americana per cercare di conservare il proprio posizionamento economico e politico nel mondo, seppur battendo una strada diversa. Quello che l’amministrazione Trump e i petrolieri che lo sostengono sta facendo con il fracking, l’estrazione violenta di combustibili fossili, l’ala guidata da Bernie Sanders vorrebbe farlo con il green. Laddove Trump lavora a concedere il sottosuolo americano allo sfruttamento privato, Sanders prova a piegare il peso della proposta sulle finanze pubbliche.
Diversamente da Trump, tuttavia, questi esponenti del Partito Democratico americano hanno compreso quanto la crisi climatica in corso sia vera e propria benzina sulle disuguaglianze sociali e la disparità economica negli Stati Uniti. Per questo l’intero pacchetto di misure è affiancato da una serie di proposte sociali, come la copertura sanitaria universale e una nuova proposta per il salario minimo.
Il Green New Deal ha ricevuto molte critiche, anche da diversi economisti borghesi. Con il termine “economista borghese” intendiamo quella figura accademica formata sui dogmi che sono maggioritari nel dibattito economico internazionale e che considerano il capitalismo il non plus ultra della civiltà umana.
Come faceva notare Marco Valsania su Il Sole 24 ore già il 17 febbraio scorso, si stima che il solo pacchetto di misure sociali possa costare circa 540 miliardi di dollari l’anno, poco più dell’80% del budget annuale del Pentagono. Il think tank Clearview Energy Partners stima un costo di 2900 miliardi di dollari per le sole misure ecologiche, una cifra enorme che praticamente coprirebbe le entrate di un intero anno fiscale negli Stati Uniti.
Perfino dal punto di vista neoliberista, un piano del genere indebiterebbe i giovani americani per generazioni. Ma questo non è il punto più debole di questa proposta.
Gli autori hanno risposto alle critiche spiegando che un piano del genere dovrebbe essere coperto da una forte tassazione progressiva e da una tassazione dei movimenti finanziari di Wall Street, un cavallo di battaglia del riformismo radicale che abbiamo sentito spesso nei dibattiti di questi ultimi anni. Una tassazione del genere sarebbe sacrosanta. Non solo è giusto che chi ha di più debba dare di più, ma anche che tutti contribuiscano alla fiscalità generale perché il suo peso non cada sulle spalle dei più deboli.
Ma questa misura, che non ha mai trovato attuazione nemmeno nei periodi più bui della crisi finanziaria dopo il 2008, mostra tutta la propria debolezza di fronte al più semplice dei problemi: gli imprenditori e i banchieri non vogliono. O viene imposta, pronti a ingaggiare una battaglia all’ultimo sangue, o rimarrà lettera morta.
In effetti il problema del Green New Deal è triplice. Se da una parte un forte investimento pubblico farebbe ricadere, nel tempo, i suoi costi sulle fasce sociali più deboli, dall’ altra per essere applicato richiederebbe un conflitto frontale con l’intero sistema bancario e produttivo americano. Un simile scontro non potrebbe essere ingaggiato da nessun governo sulla sola base delle gentilezze del diritto. I fatti hanno la testa dura tanto quanto banchieri ed imprenditori hanno nelle loro mani la leva del credito e della produzione. Per ogni colpo basso che subiscono hanno cento piani per espatriare i propri capitali. Non esiste misura di riduzione del margine che un imprenditore accetti per beneficenza. D’ altronde gli imprenditori esistono solo se possono reinvestire il capitale. Istituzioni o no, il capitalismo è il loro sistema. I governi, democraticamente eletti o meno, sono di per sé solo ospiti in casa d’altri.
Tuttavia, come dicevamo, il cuore del problema è ancora un altro: il capitalismo americano non può pianificare alcun investimento di lungo termine perché poggia su una montagna di debiti. Ancora nel luglio 2019 il debito pubblico americano ammontava a 22mila miliardi di dollari, circa il 105% del PIL. Come nel caso del debito pubblico italiano, ciò che l’economia Usa produce in un anno lo spende per ricapitalizzare gli interessi sul proprio debito. Il governo Usa non può spendere denaro che non ha. A meno di non finanziarsi a debito, ancora una volta. Ma sarebbe una ricetta per il disastro, sulla base del funzionamento di questo sistema.
L’idea che possa essere trovato un nuovo accordo è seducente e sembra avere anche una certa presa sul dibattito internazionale di Fridays for Future. Ma, come abbiamo visto, si basa su un’analogia errata: il capitalismo mondiale nel 1929 affrontava la prima crisi finanziaria ed economica della propria storia, aveva ancora margini monetari per uscire dalla crisi; il capitalismo di oggi no. Non c’è un settore dell’economia mondiale che non si regga sugli aiuti pubblici. Quando, nel gennaio 2019, la Federal Reserve ha annunciato una lenta riduzione del Quantitative Easing, il programma di assorbimento pubblico dei crediti inesigibili delle banche private, le borse sono impazzite. La FED ha dovuto trattare il rientro dal programma con grande cautela, tanto che prosegue ancora oggi. Di fatto, trattando il sistema come un tossicodipendente.
Si tratta dunque un’analogia non replicabile.
Ma il Green New Deal si basa anche su un grande malinteso. L’idea che possa essere trovato un accordo tra imprenditoria ed esigenze climatiche è fuorviante, perché i pannelli solari, le pale eoliche e le auto elettriche sono merci. Se prodotte da un privato per essere immesse nel mercato, devono essere valorizzate. È necessario ricavarne del denaro da reinvestire, perché nuove merci possano essere immesse. Un mercato del genere andrebbe incontro alla formazione di una rapida bolla speculativa perché la tecnologia alla base di queste innovazioni permetterebbe una rapida copertura del fabbisogno mondiale, perché non pianificato. Il capitalismo, di per sé,, si regge sulla legge della domanda e dell’offerta. Può tollerare la pianificazione solo in momenti molto eccezionali e temporanei (come una guerra, ad esempio).
Nel giro di pochi anni, tutti i fattori che spingerebbero per la crescita di questo nuovo mercato si tramuterebbero nel loro contrario. Il mercato del green andrebbe di corsa verso una nuova saturazione. Torneremmo ad avere generazioni di disoccupati con l’aria più pulita, mentre il mondo si riconfigurerebbe rapidamente tra potenze coloniali, in grado di esportare merci e cibo eco, e paesi dominati.
Non facciamo fatica a immaginare quali sarebbero questi ultimi.
Dalla tragedia alla farsa: il Decreto clima
Proposte simili verranno copiate da diversi governi in tutto il mondo. Le istituzioni dovranno pur dimostrare di fare qualcosa di fronte alla pressione permanente rappresentata dal movimento, anche solo per prendere tempo. Da qui, vedremo svilupparsi una vera e propria strategia del bluff.
È il caso del Decreto clima sbandierato dal governo Conte bis come “il primo passo verso un Green New Deal italiano”. Contenuto nella manovra economica, questo pacchetto farsa è il tentativo disperato del M5S di rifarsi una verginità di fronte al movimento ambientalista, soprattutto dopo aver tradito frontalmente il movimento No Tav.
Ma, per parafrasare Karl Marx, se la prima volta è la tragedia, la seconda è soltanto una farsa. Quanto abbiamo detto del debito pubblico americano si applica cento volte al debito italiano. Così il pacchetto di misure proposto dal governo non sospende nemmeno le esenzioni al pagamento delle imposte sulle estrazioni di idrocarburi. D’altronde, secondo Forbes, la ENI, compartecipata del governo, è pur sempre l’ottava industria estrattiva al mondo e siede di diritto tra le 500 aziende più grandi del mondo. Uno sbadiglio del presidente Emma Marcegaglia è stato sufficiente a riscrivere il decreto.
Il governo si è dunque buttato sui finanziamenti a progetti green comunali, come l’ampliamento delle corsie preferenziali e l’acquisto di scuolabus elettrici o green. Tra queste, figurano anche finanziamenti alle “foreste urbane”, magari ottenute in cambio alle deroghe sugli oneri come fatto dal comune di Milano durante la stagione Expo. Oggi in zona Isola campeggia il bosco verticale, esempio splendido di architettura green dove gli amministratori delegati potranno guardare le manifestazioni del verde dei loro balconi.
Non mancheranno ecobonus mobilità (ben 1500 €) per sostituire le automobili private mentre gran parte delle città italiane ha trasporti pubblici di superficie inquinanti e del tutto inadeguate. Almeno rimarranno tutti in coda sul raccordo anulare, a Roma, con auto che a due anni dalla produzione torneranno a inquinare come prima.
Al ministero dell’Ambiente verrà creata l’ennesima commissione, una Piattaforma per il contrasto ai cambiamenti climatici e la qualità dell’aria, sulla quale siamo certi che la trasmissione Report, tra qualche anno, potrà fare un servizio dimostrandone l’inutilità. D’altronde, vige la più semplice domanda: chi controlla questa commissione? Chi controlla l’attuazione di una qualsiasi delle misure proposte? Lo stesso Ministero propone una verifica del Programma Strategico Nazionale a 3 anni. Ben 3 anni, quando l’Ipcc ha indicato al 2030 il nostro punto di non ritorno globale.
E tutto questo sostenuto dal nutrito investimento dello 0.001% del PIL.
È del tutto evidente, quindi, quanto il clima sia una piattaforma sul quale la mediazione ha le gambe veramente corte. L’opposizione al Decreto Clima del governo Conte bis riassume la necessità di una opposizione sociale al governo in sé. È la conseguenza logica del non poter trattare separatamente il clima dalle altre rivendicazioni sociali.
Trasformerà Fridays for Future in un movimento politico. O forse semplicemente lo ha già fatto.
Rivendicazione permanente
“È davvero il momento del clima: la paura della gente si sta trasformando in rabbia e quella rabbia presto potrebbe presto rivolgersi contro il mondo della finanza.”
(Bill McKibben, Money is the oxygen on which the fire of global warmings burns -The New Yorker, 2019)
La nostra analisi ci porta a dissentire frontalmente con quanto scritto su Jacobin da Simone Gasperin nel luglio 2019: “Occorre un rinnovato ruolo pubblico che pianifichi una trasformazione produttiva sostenibile e crei posti di lavoro ecologicamente utili”.
La visione di Jacobin spiega bene come non esista una soluzione di mercato in grado di mettere mano all’alterazione del clima. Ma allo stesso tempo cade esattamente nello stesso errore di Alexandra Ocasio-Cortez ed Ed Markey: chiede allo stato di investire denaro che non ha, dimenticando che un simile investimento sarebbe possibile solo attraverso l’esproprio, la nazionalizzazione e la pianificazione. L’autore investe quest’ultima di grandi responsabilità, ma lascia alle istituzioni l’idea di convertire gli affari di ENI ed ENEL. Ma come abbiamo visto, una tigre non può diventare vegetariana.
Il capitalismo ha un meccanismo di funzionamento ben preciso. Diversamente non è più capitalismo. Potrebbe essere una terza via tra capitalismo e socialismo? Ma senza la presenza privata non sarebbe affatto una terza via. Come si gira il problema, si torna sempre al nocciolo della questione.
Questo spiega, secondo noi, perché non è possibile alcuna riconversione ecologica del capitalismo. Il capitalismo è nato con i combustibili fossili e morirà con i combustibili fossili. I suoi affari si sono consumati con l’estrazione, ha costruito un impero con la plastica che è entrata nelle vite di tutti noi. Secondo il New Yorker, JP Morgan Chase finanzia con 196 miliardi di dollari l’anno le principali industrie estrattive del mondo, tra cui Exxon Mobil.
E questo rappresenta solo il 7% dei suoi investimenti totali. BlackRock, una delle più grandi banche d’investimento del mondo, detiene il 7% delle azioni della Exxon Mobil e il 9% delle azioni di Bp. Ne gestisce anche gran parte dei fondi pensione dei dipendenti. Il suo denaro stringe nelle mani il futuro dei dipendenti di queste aziende.
Secondo lo stesso articolo del New Yorker già citato, nel 2015 l’allora presidente della Bank of England, Mark Carney, stimava che gli idrocarburi nel sottosuolo ancora bloccati e da estrarre ammontassero a un valore di 20mila miliardi di dollari. Di fatto, una gigantesca bolla speculativa che accompagna un sistema economico che non vede l’ora di eviscerare il pianeta una volta per tutte. Quale accordo può essere trovato, in una situazione di questo tipo?
Ma non è necessario andare così lontano per comprendere il dilemma che il movimento Fridays for Future dovrà imparare a sciogliere in fretta. ArcelorMittal sta abbandonando l’Ilva, a Taranto. Difendere i posti di lavoro o difendere la città? Creare una bomba sociale lasciando a casa 10mila operai (e indotto, in tutta la regione) o mettere mano a una bomba climatica che ha innalzato il tasso medio di tumori infantili del 30% sulla media nazionale?
Il governo Renzi nel 2015 ha sottratto l’Ilva ai Riva e l’ha sottoposta a controllo ministeriale. Questa nazionalizzazione in sedicesimi non è stata fatta per beneficenza. Serviva a rimettere in sesto l’acciaieria più grande d’Europa per poterla rivendere ai privati. Per rendere più ghiotto il boccone, è stato inserito lo scudo penale per il reato di disastro ambientale. Ed ArcelorMittal perché ha acquistato Ilva? Molto probabilmente per toglierla di mezzo. È la logica del capitalismo, che fa del risanamento ambientale una merce come tutte le altre.
Il caso Ilva è emblematico della necessità che il movimento si doti di un piano di rivendicazioni permanente. La sola nazionalizzazione dell’Ilva, fosse pure sotto il controllo di chi lavora e dei sindacati, non sarebbe sufficiente nemmeno per attuare la bonifica ambientale. Circondata da aziende e trasporti navali e terrestri privati, soccomberebbe finanziariamente subito. Le banche non darebbero credito a un’azienda che non vorrebbe investire secondo le modalità più profittevoli ma con attenzione alla sostenibilità. Temerebbero crediti insoluti. Lo stesso accadrebbe col reperimento delle materie prime e con la spedizione dell’acciaio lavorato. L’Ilva nazionalizzata e gestita da chi lavora cercherebbe di trovare compagnie di trasporto ecocompatibili, che letteralmente non esistono. Perderebbe terreno ulteriormente e il suo acciaio costerebbe sempre di più, divorato dalla concorrenza cinese. Alla fine chiuderebbe comunque.
È chiaro che la nazionalizzazione di Ilva deve essere affiancata dalla nazionalizzazione del settore bancario, di quello dei trasporti, della gestione portuale. Già questo cambierebbe la partita. Sarebbe il volano per rivendicare misure analoghe in tutto il continente europeo, senza le quali queste misure sarebbero comunque limitate. Circondata, dopo un po’ di tempo, soccomberebbe ancora alle pressioni della concorrenza internazionale. Le rivendicazioni italiane dovrebbero diventare presto rivendicazioni europee e poi mondiali.
Potremmo estendere questo esempio a qualsiasi rivendicazione ambientale: dalla dichiarazione di emergenza climatica del comune di Milano al raggiungimento degli Accordi di Parigi. Nell’idea di trovare un accordo vi è implicita l’idea che si possa trovare un punto comune tra privato e pubblico. È una seduzione pericolosa, che asseconda l’idea secondo cui l’importante è che si faccia qualcosa e che si ottenga qualcosa, per quanto piccolo. L’idea che manifestazioni sempre più grandi esercitino una pressione sempre maggiore perché i governanti facciano qualcosa implica che il movimento debba essere un semplice controllore.
Ma l’emergenza climatica è l’unico terreno dove non è possibile nemmeno prendere tempo con delle parziali conquiste. Per ogni punto strappato alla resistenza di governanti, industriali e banchieri, se ne imporranno altri dieci, in un vero e proprio programma di rivendicazioni permanenti che costringerà il movimento a diventare sempre più politico.
Dunque, la lotta per il clima è la lotta per una società diversa, socialista. Una società che emerga dall’attuale, superandola, basata non sulle cieche forze del mercato ma sulla partecipazione consapevole, pianificata e organizzata di chi studia e di chi lavora alla produzione e alla ricerca.
Nel suo articolo La fine del neoliberalismo e la rinascita della storia, Joseph Stiglitz dice: “Dobbiamo rivitalizzare l’illuminismo e impegnarci di nuovo a onorare i suoi valori di libertà, rispetto per il sapere e democrazia.” Ma questo il capitalismo e le sue istituzioni non lo permetteranno, perché non è più tempo di capitalismo ragionevole.
Sarà dunque ben altra, la democrazia che salverà il pianeta.