
“Nessun insulto più grossolano, nessuna calunnia più miserabile può essere pronunciata contro la classe operaia che l’affermazione: le dispute teoriche sono affare esclusivo degli “accademici”. (…) Tutto il potere del moderno movimento dei lavoratori poggia sulla conoscenza teorica”.[1]
Rosa Luxemburg
Rosa Luxemburg mise sempre in guardia da qualsiasi idea scolastica della formazione politica. Niente però le era più indigesto di un approccio “empirico” o “pragmatico” ai problemi. Come ogni grande marxista essa cercava la teoria negli sviluppi reali della storia e affrontava la storia grazie a un solido approccio teorico: “il proletariato apprende la sua materia dalla vita di ogni giorno (…). Ciò di cui la massa ha bisogno è la visione generale, la teoria che permette di sistematizzare le esperienze e di farne un’arma mortale contro gli avversari”. Essa non fu solo una lottatrice da barricata, essa fu anche una grande teorica. Per questo quando nel 1907 l’Spd creò una propria scuola quadri, non si fece pregare due volte di prendervi parte come docente. Con i giovani compagni che frequentarono la scuola tornò spesso su un punto: “Dalla prima all’ultima ora ci siamo sforzati di far comprendere loro che non possiedono una conoscenza completa, che devono continuare a studiare, a studiare per tutta la vita…”.
Il riflusso le permise di dedicarsi ad una serie di questioni teoriche. Nella scuola si occupò della teoria marxista dell’economia. Produsse l’opuscolo divulgativo Introduzione all’economia politica. Fu nel corso di questi studi, però, che si decise ad affrontare uno dei nodi irrisolti della questione economica. C’era un punto su cui il revisionismo aveva trovato un terreno d’offensiva ideologica piuttosto importante: da 20 anni l’economia appariva in un trend ascendente capace quasi di autoalimentarsi all’infinito. Che ne era dunque delle crisi cicliche di sovrapproduzione previste da Marx? Rosa aveva già risposto in modo geniale durante la polemica con Bernstein:
Ma (…) come avviene che noi da due decenni, non abbiamo una crisi economica generale? (…) Non è un segno che il modo di produzione capitalistico (…) si è di fatto adattato alle esigenze della società e ha superato l’analisi fatta da Marx? Se si esaminano più attentamente (…) tutte le grandi crisi internazionali che si sono avute sin ad oggi, ci si deve persuadere che esse non sono state del tutte l’espressione della debolezza senile dell’economia capitalistica, ma piuttosto della sua età infantile. (…) E’ stato dunque ogni volta l’improvviso allargarsi del campo dell’economia capitalistica e non il restringersi del suo raggio d’azione, non il suo esaurimento a dare l’avvio, fino ad oggi, alle crisi economiche. (…) Se noi teniamo presente la situazione economica attuale, dobbiamo senz’altro ammettere che noi non siamo ancora entrati in quella fase di piena maturità capitalistica che è presupposta nello schema marxiano della periodicità delle crisi. [2]
Ora però si faceva spazio un’ulteriore teoria. Alcuni economisti ritenevano di aver scoperto nelle formule matematiche di Marx la possibilità di una crescita infinita del sistema. Per spiegare come avviene l’accumulazione e la riproduzione del capitale, Marx divise la produzione di merci in due settori: quello che produce mezzi di consumo (1) e quello che produce altri mezzi di produzione (2). Se il primo produce fondamentalmente beni destinati al lavoro dipendente, il secondo vende ai capitalisti stessi. E’ evidente che un’azienda che produce presse o macchine da imballaggio, ad esempio, produce per altre aziende capitaliste. Marx spiegava che al sopraggiungere della sovrapproduzione dei beni di consumo, i capitalisti avrebbero reagito reinvestendo il capitale nel settore che produce mezzi di produzione. Così facendo, avrebbero momentaneamente alleviato la sovrapproduzione: il settore 2 in crescita avrebbe assunto nuovi lavoratori e questi nuovi occupati avrebbero alleviato la sovrapproduzione nel settore 1. Tutto questo, aggiungeva però Marx, avrebbe determinato a lungo andare una maggiore sovrapproduzione. Produrre mezzi di produzione per alleviare la sovrapproduzione è come bere acqua salata per dissetarsi: più macchine volevano dire più produttività del lavoro, meno occupati e più capacità produttiva. Alcuni “marxisti legali” russi invece nel controbattere le teorie populiste credettero di aver trovato nell’equilibrio tra settore 1 e settore 2 la chiave della crescita infinita del sistema. Così spiegò la Luxemburg:
La concezione di Tugan-Baranovskij, secondo cui la produzione capitalistica può costituire uno sbocco illimitato a sé medesima, ed è indipendente dal consumo, lo porta direttamente alla teoria (…) del naturale equilibrio fra produzione e consumo (…). Il problema era: è il capitalismo in generale e in particolare in Russia, suscettibile di sviluppo? E i suddetti marxisti hanno dimostrato così a fondo questa capacità di sviluppo, [tanto] da dimostrare anche l’esistenza eterna del capitalismo. (…) Chi realizza dunque il sempre crescente plusvalore? Lo schema risponde: gli stessi capitalisti e solo loro. E cosa ne fanno, del loro plusvalore crescente? Lo schema risponde: serve loro per aumentare sempre più la produzione. Questi capitalisti sono dunque dei fanatici dell’allargamento della produzione. Fanno costruire sempre nuove macchine per costruire con esse sempre nuove macchine. Ma in tal modo [ciò che] otteniamo non è un’accumulazione del capitale, ma una crescente produzione di mezzi di produzione senza alcun scopo. [3]
Lo schema dei sostenitori della crescita infinita del capitalismo poteva insomma reggere solo se si considerava la produzione di macchine come fine a sé stessa, un mondo di aziende che producono macchine e se le vendono reciprocamente per il puro gusto di produrre macchine. Rosa quindi partì da questa polemica per studiare le formule economiche di Marx riguardo alla riproduzione e all’accumulazione del capitale. Ne uscì un’opera impetuosa, geniale quanto forse imprecisa, L’accumulazione del capitale. In questo libro essa partì dal confutare le teorie dello “sviluppo eterno” del capitalismo e giunse al suo opposto: interpretò gli schemi di Marx in una maniera tale per cui non vi sarebbe mai potuta essere alcuna riproduzione allargata del capitale.
Il suo ragionamento a grandi linee era questo: per il marxismo il profitto capitalista è quella parte di produzione che non viene pagata al lavoratore sotto forma di salario (capitale variabile). Ne consegue che la capacità di consumo dei lavoratori è limitata alla sola parte della produzione che ricevono sotto forma di salario:
Il continuo allargamento della produzione capitalistica, cioè la continua accumulazione, è perciò legato ad un altrettanto continuo allargamento del fabbisogno sociale. (…) Ma i lavoratori non dispongono di mezzi di acquisto oltre i salari loro passati dagli imprenditori (…). Inoltre, lo sforzo e l’interesse della classe capitalistica tendono a calcolare al minimo, non al massimo, la parte del prodotto sociale totale consumata dai lavoratori. Infatti dal punto di vista dei capitalisti (…) i lavoratori non sono (…) acquirenti di merci, “clienti” come altri, ma pura forza-lavoro, [un costo da comprimere] [4]
Quindi, se la capacità di consumo dei lavoratori è limitata, da dove viene la crescita della domanda che permette al plusvalore capitalista di essere reinvestito allargando la produzione? In parte i capitalisti arricchiti finiscono per consumare di più. Ma in sé questa non può essere una spiegazione. La concorrenza tra aziende costringe il capitalista a reinvestire i profitti. Se un padrone consuma una parte eccessiva del plusvalore accumulato in spese di lusso personale, si metterebbe da solo fuori dal mercato. Non rimaneva che ipotizzare che i capitalisti aumentassero la domanda commerciando tra di loro, cioè producendo mezzi di produzione. Ma anche questa risposta era già stata confutata: le macchine non si producono tanto per produrre macchine. Gira e rigira, il punto era sempre quello:
Perchè realmente il capitale si accumuli, cioè la produzione si allarghi, è necessaria una terza condizione: un allargamento della domanda solvibile di merci. Da dove si origina la domanda continuamente crescente che sta alla base del progressivo allargamento della produzione nello schema di Marx? [5]
Se la risposta era che l’aumento della domanda non poteva venire né dai lavoratori né dai capitalisti, era necessario rifugiarsi in un elemento esterno alla stessa economica capitalista. Rosa Luxemburg sentenziò:
No, nei limiti dello schema di Marx noi non conosciamo se non due fonti di reddito nella società: salario e plusvalore. (…) Essendo dunque impossibile trovare all’interno della società capitalistica gli acquirenti visibili delle merci in cui la parte accumulata del plusvalore si nasconde, non resta che una via d’uscita. (…) Il capitalismo ha bisogno, per la sua esistenza e per il suo ulteriore sviluppo, di un ambiente costituito da forme di produzione non capitalistiche. [6]
In un sol colpo credette di aver trovato la soluzione a tutti i mali. Non solo questo spiegava le formule economiche di Marx, ma forniva una base per comprendere i 20 anni di crescita ininterrotta dell’economia. Il capitalismo era cresciuto perché, conquistando il resto del globo, si era cibato della domanda derivante dalle forme “non capitaliste” delle economie più arretrate. Ma in questa presunta soluzione era contenuto già il problema. La formula della Luxemburg portava a postulare o uno sviluppo eterno del capitalismo o tutto al contrario un crollo spontaneo del capitalismo stesso.
Cosa sono infatti queste forme economiche “non capitaliste”? Se con esse si intende la “piccola borghesia”, allora il capitale può svilupparsi all’infinito giacché un capitalismo privo di piccola borghesia è pressoché impossibile. Se invece le forme economiche “non capitaliste” sono le economie pre-capitaliste dei paesi arretrati, era sufficiente attendere che il capitalismo esaurisse da sé tutte le forme pre-capitaliste per assistere ad un suo crollo definitivo. E le formulazioni contenute ne L’Accumulazione del capitale prestano senza ombra di dubbio il fianco ad una concezione catastrofista e fatalista del crollo finale del capitalismo:
Così grazie all’azione reciproca su strati sociali e paesi non capitalistici il capitalismo si estende sempre più (…). Ma attraverso questo processo il capitale prepara in duplice modo il proprio crollo. Da una parte, allargandosi a spese di tutte le forme di produzione non capitalistiche, si avvia verso il momento in cui l’intera umanità consisterà unicamente di capitalisti e salariati, e perciò un’ulteriore espansione e quindi accumulazione risulterà impossibile; dall’altra, nella misura in cui questa tendenza s’impone acuisce a tal punto i contrasti di classe e l’anarchia economica e politica internazionale.[7]
Rosa Luxemburg si sforzò con la sua teoria politica di scacciare via il fatalismo che era contenuto nella sua teoria economica. Ribadì a più riprese che il crollo del capitalismo non sarebbe mai venuto da solo e lo ribadì tanto più forte quanto si era messa da sola in un vicolo cieco teorico:
Il socialismo scientifico ci ha insegnato a comprendere le leggi oggettive dell’evoluzione storica. Gli uomini non fanno arbitrariamente la loro storia, ma essi la fanno da sé. (…) E se noi non possiamo saltar sopra allo sviluppo storico, come l’uomo alla sua ombra, possiamo però affrettarlo o rallentarlo. Il socialismo è il primo movimento popolare nella storia del mondo che si ponga come scopo e sia chiamato nella storia a portare nell’agire sociale degli uomini un senso cosciente, un pensiero pianificato e con ciò il libero volere. (…) è legato alle ferree leggi della storia, ai mille gradini di una evoluzione precedente, dolorosa e fin troppo lenta. Ma esso non può essere in alcun modo compiuto se da tutto il materiale di presupposti obiettivi accumulato dall’evoluzione non scocca la scintilla animatrice della volontà cosciente della grande massa popolare. La vittoria del socialismo non cadrà dal cielo come un fato. (…) Federico Engels dice una volta: la società borghese si trova davanti a un dilemma, o progresso verso il socialismo o regresso nella barbarie. [8]
Questo documento non può, per ragioni di spazio, scendere più in profondità della questione pena lo sconfinamento nella pura economia politica. Possiamo dire solo questo: l’errore della Luxemburg è consistito nel partire dalle formule matematiche per provare a giungere alla realtà e non viceversa. Cercò un singolo elemento che potesse giustificare di per sé la crescita del capitalismo e la sua seguente crisi.
Per il marxismo l’elemento fondamentale delle crisi capitaliste è determinato dalla sovrapproduzione. Ma essa non è creata da un unico fattore, come, ad esempio, la limitata capacità d’acquisto dei salari. Se così fosse, basterebbe aumentare i salari per uscire dalla sovrapproduzione. Così non è. Anarchia del mercato, aumento della produttività del lavoro in conseguenza dell’introduzione di nuove macchine, una sempre maggiore pianificazione della produzione all’interno della singola azienda a fronte del caos del mercato, rovina della piccola borghesia, compressione dei salari dei lavoratori, sfruttamento dei paesi arretrati ecc.: ognuno di questi elementi è ugualmente responsabile della sovrapproduzione. Il capitalismo produce i propri scompensi con una molteplicità di fattori, come l’organismo umano invecchia con tutti i suoi organi. Semmai ognuno di questi fattori è determinato dal contrasto tra la crescita delle forze produttive e la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Su una cosa Rosa Luxemburg aveva ragione: la crescita della fine dell’800 era spiegabile grazie allo sviluppo impetuoso dell’imperialismo e del commercio internazionale. Non appena la spartizione del mondo tra le potenze avesse raggiunto un determinato limite, la ripresa pacifica si sarebbe trasformata nel suo contrario: nella carneficina della prima guerra mondiale.
[1] ROSA LUXEMBURG, Riforma sociale o rivoluzione, Newton Compton, Roma, 1978, p. 5.
[2] Ivi, p. 19.
[3] ROSA LUXEMBURG, L’accumulazione del capitale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1960. pp. 315-316-321.
[4] Ivi pp-471-484.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 124, p.363.
[7] Ivi p. 48.
[8] ROSA LUXEMBURG, Scritti politici, Editori Riuniti, Roma, 1970..