“L’esperienza storica della più grande rivoluzione della storia mostra che essa non fu diretta dal partito che cominciò con le bombe ma dal partito che cominciò con il materialismo dialettico.” [1]
Lev Trockij

Gli albori del movimento rivoluzionario russo furono contrassegnati dal fenomeno peculiare del populismo. Quest’ultimo si reggeva su due postulati: innanzitutto individuava i contadini come unico soggetto rivoluzionario,  in secondo luogo teorizzava la possibilità che la Russia arrivasse al socialismo senza alcun sviluppo capitalista delle forze produttive. L’infondatezza di queste idee lasciò i populisti letteralmente sospesi in aria: incapaci di agganciarsi al treno della storia reale, finirono per rifugiarsi nelle pratiche del terrorismo. Di contro il marxismo si aprì la strada verso la gioventù rivoluzionaria russa polemizzando frontalmente con simili concezioni. Sul terreno pratico lottò contro ogni forma di tattica terrorista e contro ogni idea “cospirativa” della rivoluzione. Sul terreno teorico dimostrò con efficacia come anche la Russia zarista sarebbe stata prima o poi trascinata nel fiume dello sviluppo capitalista. Al posto dell’orientamento ai contadini, prospettò la necessità di iniziare ad orientarsi al nascente movimento operaio.

Nella correttezza di queste idee era però contenuta una loro possibile deformazione. In particolare la necessità del passaggio attraverso uno stadio di sviluppo capitalista fu tramutata nell’erronea concezione delle due fasi. Fu trasformata in un inno all’attesa. Mentre il capitalismo doveva fare il proprio corso, il socialismo veniva rinviato ad un orizzonte indefinito. Visto che la rivoluzione futura si poneva il compito di creare la cornice necessaria allo sviluppo capitalista, non rimaneva altro che subordinare l’azione politica dei lavoratori a quella della borghesia. Il marxismo così deformato divenne altamente digeribile per il professore universitario borghese. Da un lato ne derivò il “marxismo legale”, un fiorire di pubblicazioni accademiche che diffondevano un marxismo castrato da qualsiasi conclusione pratica. Dall’altro ne risultò l’ “economismo”: una corrente interna al movimento socialista che negava qualsiasi necessità di organizzarsi politicamente, appiattendo tutta la propria azione esclusivamente sulla lotta sindacale. Se alla borghesia spettava la direzione della lotta politica contro lo zarismo, ai lavoratori non rimaneva infatti che attendere e difendere le proprie condizioni economiche.

Per questo nel movimento operaio russo l’opportunismo nei confronti dei liberali andò sempre a braccetto con lo spontaneismo ed il rifiuto dell’organizzazione. Nonostante il Partito Socialdemocratico Russo (Posdr) fosse stato fondato formalmente nel 1898, ancora all’inizio del ‘900 esso non era nient’altro che una poltiglia di comitati strutturati su base locale, indipendenti l’uno dall’altro. Invece di vivere questa condizione come un ostacolo, l’economismo la esaltava, inneggiando al localismo e allo spontaneismo. In loro contrapposizione nacque il giornale Iskra, la “scintilla” che doveva incendiare la steppa russa, con l’obiettivo esplicito di unificare il movimento socialdemocratico russo su principi correttamente marxisti. La redazione era composta da 6 membri, tra cui Lenin, Plekhanov e Martov. In questo contesto il gruppo calcò su alcuni punti: superiorità dell’organizzazione sulla spontaneità, necessità di un’organizzazione nazionale centralizzata e lotta per lo sviluppo della coscienza politica del proletariato. Il tutto era accentuato dal fatto che i socialdemocratici russi dovevano creare l’organizzazione in condizioni di clandestinità: l’ampiezza della discussione interna era necessariamente subordinata alle esigenze di sicurezza. Non c’è dubbio quindi che nel fuoco della polemica, gli iskristi finissero per enfatizzare eccessivamente alcuni principi organizzativi. Lenin stesso anni dopo, commentando alcune formulazioni scorrette contenute nel Che fare?, ammise le esagerazioni polemiche in risposta all’economismo: “Oggi sappiamo tutti che gli “economisti” hanno piegato il bastone da una parte. Per raddrizzarlo bisognava piegarlo nell’altro senso, ed è quello che ho fatto”.

In ogni caso l’Iskra vinse la propria battaglia. Nel Congresso del 1903 mise in minoranza le correnti anti-organizzazione ed economiste. Una volta ottenuta la maggioranza politica, però, successe l’impensabile. Nelle sessioni organizzative del Congresso iniziarono a svilupparsi dissidi all’interno del campo iskrista. Inizialmente  l’attrito si sviluppò attorno al primo articolo dello Statuto, il quale aveva il compito di definire chi era membro del partito. La preoccupazione di Lenin era quella di dividere il movimento dallo sciame di professori sedicenti marxisti, vincolandoli ad alcuni doveri pratici: doveva essere membro del partito“chiunque ne accetta il programma e [lo] sostiene sia con mezzi materiali che con la partecipazione personale ad una delle sue organizzazioni”[2]. A questo Martov contrapponeva una formulazione più vaga in cui era considerato membro del partito chi ne accettava il programma e contribuiva in qualche modo all’autofinanziamento dell’organizzazione. Ciò che era stato cacciato dalla porta rischiava di rientrare dalla finestra. I sostenitori della seconda ipotesi erano preoccupati di non spaventare il “professore che si considera socialdemocratico e lo dichiara”[3] ma che – per chissà quale motivo – non ha nessuna intenzione di sporcarsi le mani nella vita quotidiana del partito.

Ciononostante la spaccatura non avvenne su questo. Lenin fu disponibile a passare sopra quello che appariva ai più un particolare organizzativo di poco conto. Lo scontro scoppiò quando si trattò di nominare la nuova redazione dell’Iskra: Lenin propose di ridurla da 6 a 3 membri. Metà della redazione aveva infatti scritto da sola 95 dei 113 articoli apparsi sul giornale. Nessuno aveva il diritto divino a sedere in un organismo. Il nuovo partito doveva abbandonare la logica informale e di “prestigio” personale tipica dei gruppetti, per abbracciarne una più “professionale”. Parte dei dirigenti storici visse però questa proposta come un affronto. Si arrivò ad una votazione dove Lenin ebbe la maggioranza. Ne nacque la denominazione “bolscevichi” (maggioritari) e “menscevichi” (minoritari).

Oggi ci è evidente come dietro alle differenze organizzative si nascondessero in embrione enormi differenze politiche. Ma nel 1903 questo era tutt’altro che chiaro, prima di tutto ai protagonisti della divisione. Tra i due settori esisteva una forte fluidità, tanto che Plekhanov, dopo aver appoggiato Lenin, passò ai menscevichi. I “maggioritari” persero così da subito la maggioranza, il controllo del Cc e dell’Iskra. Feriti nell’orgoglio, i menscevichi iniziarono comunque una campagna di calunnie contro Lenin. I motivi ideali della divisione furono costruiti a posteriori, avvallando la leggenda di un Lenin autoritario e ipercentralista.

I menscevichi portarono la polemica sul piano internazionale cercando di forzare Kautsky a prendere posizione in loro favore: “Il problema è come battere Lenin…La cosa più importante è spingere personaggi autorevoli come Kautsky, Rosa Luxemburg e Parvus a prendere posizione contro di lui.”[4] A quel punto gli stessi bolscevichi furono costretti a mandare un proprio delegato in Germania per esporre il proprio punto di vista. E’ facile immaginare quanto tutta questa situazione potesse interessare il quadro medio della socialdemocrazia tedesca, già di per sé poco coinvolto dalle discussioni di principio. Quando il delegato bolscevico chiese alla redazione del Vorwarts lo spazio per un articolo si sentì rispondere che il giornale “non poteva sprecare spazio per il movimento estero, in particolare per quello russo che è così piccolo e dà così poco al movimento tedesco”[5]. Kautsky da par suo non aveva nessuna intenzione di impegnarsi nella polemica. Tra i bolscevichi c’erano molti suoi sostenitori, ma tra i menscevichi vi erano i nomi più prestigiosi del movimento rivoluzionario internazionale. Nei fatti fu quest’ultima logica a prevalere. Quando incontrò il delegato bolscevico gli spiegò:

Vede, noi non conosciamo il vostro Lenin. Per noi è un’entità sconosciuta; ma conosciamo benissimo Plekhanov e Aksel’rod. Grazie a loro siamo riusciti a fare un po’ di luce sulla situazione esistente in Russia. Non possiamo accettare su due piedi la vostra opinione secondo cui Plekhanov e Aksel’rod si sono improvvisamente trasformati in opportunisti. [6]

Kautsky si disinteressò quindi della faccenda e lasciò a Rosa Luxemburg il compito di scrivere un articolo a riguardo. La direzione dell’Spd le delegava ormai qualsiasi problema riguardante il movimento operaio polacco e russo. Ne nacque così l’articolo Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa. Se siamo stati costretti ad un excursus talmente ampio è solo perché attorno al Congresso del 1903 fu costruita ogni genere di leggenda politica. Una di queste fu l’idea di una Rosa Luxemburg ferrea sostenitrice dello spontaneismo e del menscevismo, oppositrice di qualsiasi forma di centralismo organizzativo. In Inghilterra l’articolo fu pubblicato negli anni successivi sotto il titolo: Leninismo o marxismo?. Tutt’oggi è sufficiente fare una rapida ricerca bibliografica sulle sue opere per notare come questa polemica sia stata fatta assurgere artificialmente al punto centrale del suo pensiero.


[1]  LEV TROCKIJ, In difesa del marxismo, GiovaneTalpa, Milano, 2004, p.96.

[2]  LENIN, Un passo avanti e due indietro, Editori riuniti, Roma, 1970. p.42.

[3]  Ivi, p.46.

[4]  PETER NETTL, Op. Cit., p. 238.

[5]  ALAN WOODS, Bolshevism, the road to revolution, Wellred Publications, London, 1999. Nostra traduzione dall’inglese.

[6]  PETER NETTL, Op. Cit., p. 238.