“la forza materiale deve essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse.”
Karl Marx

sintomi preoccupanti si moltiplicavano a vista d’occhio. Le direzioni dei diversi partiti europei sembravano saltare da una confusione all’altra. Eppure la direzione Internazionale continuava ad apparire schierata su posizioni saldamente marxiste. Le posizioni dei revisionisti furono messe in forte minoranza anche al Congresso Internazionale di Amsterdam del 1901. Nessuno avvertiva quindi l’esigenza di creare una corrente di sinistra. Lo stesso Lenin si considerava un ferreo aderente dell’ala radicale diretta da Bebel e Kautsky. Come spiegò Trotsky anni dopo:

Nel 1903-04 Lenin fu beninteso un avversario implacabile dell’opportunismo nella socialdemocrazia tedesca. Ma egli considerava opportunista solo la corrente revisionista di cui Bernstein era il teorico. Kautsky era allora in lotta contro Bernstein. Lenin considerava Kautsky come il suo maestro e lo sottolineava dovunque potesse. (…) Ecco cosa scriveva Lenin nel suo famoso opuscolo Due Tatticheverso la metà del 1905: “Dove e quando ho qualificato opportunismo il rivoluzionarismo di Bebel e Kautsky? Dove e quando ho preteso di aver creato una qualsiasi tendenza distinta dalla tendenza di Bebel e Kautsky? (…) La solidarietà completa della socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale su tutti i problemi importanti di programma e di tattica è un fatto indiscutibile.” [1]

 La Luxemburg stessa in quel periodo non era semplicemente una collaboratrice di Kautsky; essa ne era lacollaboratrice per eccellenza, addirittura l’amica e confidente di famiglia. Un particolare non indifferente visto che per carattere Rosa tendeva a dare poca confidenza a coloro con cui non aveva una forte sintonia politica. Essa non considerava quindi la sua azione come qualcosa di indipendente da quella della direzione Internazionale. Come già detto, avvertiva solo l’inefficacia con cui quest’ultima lottava contro le sbandate opportuniste di alcune sezioni nazionali. Un’inefficacia a cui reagiva, penna in mano, pungolando con i propri articoli tutti gli errori dei diversi dirigenti socialdemocratici. Per questo non appena fu calata l’attenzione sulla situazione francese, si lanciò nella polemica con le scelte del partito belga.

Nel 1902 era scoppiato in Belgio un movimento di massa a favore del suffragio universale. I liberali erano disposti ad appoggiare tale movimento solo se si fosse limitato al suffragio universale maschile. Scandalosamente, per non rompere  con i liberali, il Congresso del Partito Operaio Belga accettò simile mediazione. Quando in aprile i minatori entrarono in sciopero in vista della discussione alla Camera sul sistema di voto, lo sciopero generale fu revocato per non spaventare i liberali. Con questa politica i socialisti non potevano che trasmettere il senso della propria inutilità: alle elezioni di maggio i clericali videro aumentare il proprio consenso elettorale di 50mila voti, mentre il Partito Operaio ne perse 2mila. Per Rosa Luxemburg si trattava dell’ennesima dimostrazione della necessità di mantenere la totale indipendenza di classe dalle forze borghesi, fossero esse nominalmente liberali o conservatrici:

I liberali (…) si sono lasciati trascinare nella campagna per il diritto elettorale come al macello, in fondo non sono stati degli alleati bensì degli avversari dei socialisti – ma come si accorda dunque ciò col fatto che il partito operaio, per amore di questi presudo-amici limitasse gli obiettivi di lotta al suffragio maschile (…)?  Dal momento che fin dall’inizio della campagna, i liberali avevano tradito il partito operaio doveva essere palese, a parer nostro, che l’azione parlamentare era senza speranza e che soltanto l’azione extraparlamentare, di strada, sarebbe stata in grado di conseguire qualche risultato. Il compagno Vandervelde [dirigente belga – Ndt] ne conclude al contrario che dal momento che i liberali si rivoltarono contro i socialisti, l’azione di strada diventava senza prospettive (…) [e che] non rimaneva altro che tornare a casa. Ma se questo fosse giusto, si sarebbe pronunciata in tal modo la condanna capitale, non solo dello sciopero generale in questa particolare occasione, ma in genere dell’adozione di questa arma (…). Poiché è sufficiente che i liberali si esprimano contro il movimento delle masse (…) perché l’azione delle masse lavoratrici venga dichiarata vana. [2]

 Per Rosa Luxemburg ognuna di queste polemiche era un’occasione per tornare sull’Abc del marxismo. Una delle scuse con cui era stato interrotto lo sciopero generale belga era lo spauracchio della degenerazione violenta della lotta. Il rischio paventato era che gli scioperi superassero le barriere della legislazione che li regolamentava. Dietro alla fraseologia rivoluzionaria, ovunque la socialdemocrazia era un effluvio di legalitarismo e non violenza. La sistematica e sacrosanta opera di propaganda e di educazione del proletariato veniva sempre più contrapposta al movimento di massa e alla futura presa del potere politico. Per questo nello stesso articolo, Rosa affrontò il rapporto tra violenza, legalità e lotta di massa:

Ciò che ci appare anzitutto degno di rilievo nel fermo proponimento di sostituire ogni uso della violenza (…) con l’azione parlamentare, è la rappresentazione di un arbitrario rivoluzionarismo. (…) I nostri opportunisti vengono al tempo stesso a decretare né più né meno che la violenza ha cessato di essere un fattore della storia moderna. La violenza, non solo con l’avvento della legalità borghese del parlamentarismo, non ha cessato di giocare un ruolo storico, ma è oggi esattamente come in tutte le ‘precedenti epoche la base dell’ordine politico costituito. L’intero stato capitalista riposa sulla violenza (…).Anzi, chiediamoci piuttosto: in che consiste propriamente l’intera funzione della legalità borghese? Se un “libero cittadino” contro la sua volontà è posto coercitivamente in uno spazio ristretto e inabitabile, e ivi trattenuto per un certo tempo da un altro individuo, ognuno capisce trattarsi d’un atto di violenza. Ma non appena ciò avviene sulla base di un libro stampato, chiamato codice penale, e il luogo assume il nome di “regio carcere o penitenziario prussiano”, l’operazione si trasforma in un atto di pacifica legalità. Se un uomo è costretto da un altro, contro la propria volontà, all’uccisione sistematica dei propri simili, si tratta di un atto di violenza. Non appena perciò la stessa cosa prende nome “servizio militare” il buon borghese si figura di respirare nella piena quiete della legalità. Se una persona viene defraudata da un’altra contro la propria volontà di una parte dei beni o della mercede, nessuno dubita di essere alla presenza di un atto di violenza; ma se questo modo di procedere ha nome “tassazione indiretta”, allora si tratta semplicemente di esercizio delle leggi in vigore. In una parola: ciò che ci si presenta come legalità borghese, non è altro che la violenza della classe dominante aprioristicamente elevata a norma precettiva. (…) [E’] proprio la legalità borghese (e il parlamentarismo come la legalità in divenire) a costituire solo una determinata forma sociale fenomenica della violenza politica della borghesia cresciuta sulla base economica. (…) Mentre le classi dominanti in tutto il loro ambito d’azione, in tutto il loro fare e disfare fanno pernio sulla violenza, soltanto il proletariato in lotta contro queste classi, dovrebbe [per gli opportunisti] aprioristicamente e una volta per tutte rinunciarvi. [3]

Per queste righe le fu affibbiato il soprannome di Rosa la sanguinaria. I socialdemocratici avrebbero in seguito trovato estremamente utile tale etichetta quando si trattò di organizzarne il linciaggio. La storia ha un’ironia tutta sua. Rosa la sanguinaria sarebbe morta senza aver mai fatto male ad un insetto, mentre i socialdemocratici “non violenti” avrebbero usato la violenza più spietata contro la rivoluzione tedesca e contro la stessa Rosa Luxemburg. Come tutti i marxisti, quest’ultima lottò sempre contro qualsiasi forma di terrorismo. Non esiste nel marxismo un solo grammo di violenza. Esiste solo la constatazione che gli uomini fanno la propria storia ma non la fanno arbitrariamente. Nessun movimento degli oppressi ha mai potuto rimuovere con pii desideri il problema della violenza esercitata dagli oppressori. Dopo la rivoluzione russa del 1905 Rosa Luxemburg sarebbe tornata ad ironizzare sulla rappresentazione falsa e fuorviante che gli stessi riformisti davano della rivoluzione:

All’estero la rivoluzione viene descritta come un grande mare di sangue, come un insieme sofferenze inaudite della popolazione e senza il minimo raggio di luce. Questa è l’immagine che se ne fa la borghesia decadente (…). Le sofferenze della rivoluzione sono poca cosa in confronto alle pene terribili che il popolo russo ha dovuto subire prima della rivoluzione, in condizioni “tranquille e normali”…Si è mai chiesto nessuno quanta gente morisse di scorbuto e di fame? E quanta migliaia di proletari sono morti sul campo di battaglia del lavoro senza che nessuno se ne occupasse neppure a livello statistico? (…) Mentre un tempo il popolo russo vegetava (…) oggi sa perché muore, perché soffre, perché si batte.[4]


[1]  LEV TROCKIJ, Scritti 1929-1936, Mondadori, Torino, 1968. p. 192.

[2]  ROSA LUXEMBURG, Scritti scelti, Edizioni Avanti!, Milano, 1963, pp. 231-266.

[3]  Ibidem.

[4]  PETER NETTL, Op. Cit., p.311.