Guida alla lettura

Questo articolo, insieme a I più grandi responsabili, che vi presentiamo qui sono due editoriali di Gramsci esemplari. Si tratta di due analisi spietate delle responsabilità dei riformisti nel dirottare su un binario morto una giovane classe lavoratrice disposta ad arrivare allo scontro finale con la borghesia italiana. Allo stesso tempo, Gramsci coglie l’occasione per rivendicare, polemizzando con gli anarchici, la necessità storica di un partito che guidi la classe lavoratrice e organizzi gli elementi più coscienti. Solo da essi, emergeranno i primi dirigenti dello stato operaio, dopo la presa del potere.

L’anniversario dell’occupazione delle fabbriche ha servito a rimettere in circolazione uno stantio pettegolezzo contro i comunisti torinesi che dovrebbero ritenersi come i maggiori responsabili della mancata estensione del movimento. L’on. Buozzi ha fatto accenno a questa responsabilità nel suo recente discorso alle Commissioni interne metallurgiche milanesi; un altro accenno è contenuto in una corrispondenza torinese a Umanità Nova. La voce aveva passato i confini e Jacques Mesnil l’aveva raccolta in un articolo sul movimento socialista italiano pubblicato nella Revue communiste di Carlo Rappoport.

Mettiamo una volta per sempre le cose a posto. Quando, nel settembre 1920, i funzionari confederali si trovarono innanzi al grandioso sommovimento rivoluzionario provocato dall’iniziativa del Comitato centrale della FIOM, essi affannosamente corsero ai ripari, affannosamente cercarono di scaricare su qualcuno la responsabilità della loro cieca imprevidenza, della loro impreparazione, della loro inettitudine.[i] Avevano lanciato centinaia di migliaia di operai nel campo dell’illegalità, nel terreno dell’insurrezione armata e avevano dimenticato una cosa semplicissima: procurare armi agli operai, mettere la classe operaia in grado di impegnare una lotta sanguinosa.

A Milano, dove risiedeva lo stato maggiore del movimento, non si erano neppure curati di fare un inventario e una raccolta delle armi e delle munizioni esistenti nelle fabbriche: a Lecco, sette giorni dopo l’occupazione, la polizia poteva ancora sequestrare 60.000 petardi lasciati nei magazzini di uno stabilimento, 60.000 petardi che avrebbero permesso un discreto armamento delle maestranze milanesi. D’un colpo, i funzionari sindacali divennero favorevoli all’offensiva operaia; essi anzi avrebbero voluto che l’offensiva partisse da Torino, che Torino si ponesse all’avanguardia del movimento insurrezionale.

Il settembre 1920 era troppo vicino all’aprile 1920. Nell’aprile 1920 il proletariato torinese, trascinato in una disperata lotta dagli industriali, per un preciso impegno preso dal convegno della Confederazione dell’industria italiana tenutosi a Milano il 7 marzo precedente, era stato piantato in asso dalla Confederazione generale del lavoro. I torinesi, nell’aprile, erano stati isolati dal resto d’Italia, erano stati mostrati a dito al resto d’Italia come una banda di anarcoidi, di scalmanati, di indisciplinati, di pazzi. Nell’aprile si era giunti fino a fare delle insinuazioni sull’origine dei «fondi» a disposizione dei torinesi per il nolo di un’automobile. Come era possibile non ritenere in malafede coloro che nel settembre volevano dai torinesi la spinta iniziale del movimento insurrezionale, se questi «coloro» erano gli stessi che in ogni modo, con tutte le male arti avevano nell’aprile diffamato i torinesi? Come era possibile che i torinesi non pensassero che l’offerta fosse un’abile trappola per ottenere che il movimento rivoluzionario torinese fosse definitivamente schiacciato dalla polizia che aveva a Torino concentrato un imponente apparato di truppa?

Questa era la situazione di fatto. I comunisti torinesi sostennero la necessità dell’estensione del movimento e votarono l’ordine del giorno Schiavello-Bucco; rifiutarono, e ne avevano tutte le ragioni, di assumersi la responsabilità dell’iniziativa. A Torino si poteva, nel quadro generale di una lotta nazionale, sostenere l’urto delle forze governative e molte probabilità di vittoria esistevano; non si poteva però assumersi la responsabilità di una lotta armata senza avere la certezza che anche nel resto d’Italia si sarebbe lottato ugualmente, senza avere la certezza che la Confederazione, secondo il suo solito, non avrebbe lasciato addensare a Torino, come nell’aprile, tutte le forze militari del potere di Stato.[ii]

I comunisti torinesi, anche in quella occasione, operarono con saggezza, dimostrarono di saper ragionare freddamente, di essere immuni dallo spirito di avventura che veniva loro attribuito dalle grandi barbe dell’opportunismo e del riformismo. Essi avevano fatto il loro dovere, avevano provveduto e provveduto nei limiti delle loro forze e delle loro disponibilità locali. Rifiutarono di farsi prendere in trappola dai politicanti del mandarinismo confederale, che avevano lanciato le masse operaie nel campo della lotta armata e si erano dimenticati di procurare le armi, che a Lecco si erano stupidamente fatti sequestrare 60.000 petardi e poi, affannati, convulsi, pazzi di terrore, domandavano «quattro mitragliatrici per armare Milano».

 

Note:

[i] (nostra enfasi). Gramsci sottolinea qui un aspetto centrale che, siamo certi, ritroveremo anche al prossimo assalto al cielo della classe lavoratrice italiana: le esplosioni rivoluzionarie colgono sempre di sorpresa gli apparati sindacali perché, per loro natura, essi si sono formati nella trattativa, ossia nell’accettazione degli attuali rapporti di forza nella società.

[ii] A Torino si sarebbe potuto vincere solo se la lotta si fosse estesa al resto del paese. Solo in questo modo la classe lavoratrice avrebbe potuto organizzare, diretta da un partito e da un sindacato nazionali, la lotta contro l’intera classe dominante italiana.