
Al centro dell’analisi di Trockij vi è il tradimento della direzione del Partito Socialista, a partire dalla sua componente centrista (Lazzari e Serrati) fino alla necessità di rompere con la destra interna di Turati. I lavoratori italiani hanno dimostrato un eroismo rivoluzionario senza precedenti: hanno occupato le fabbriche, le strade, hanno fondato soviet (i Consigli di fabbrica), hanno occupato i campi, hanno letto ogni giorno dalle colonne de L’Avanti! quanto l’ora fosse giunta. Eppure questa fatidica ora non sarebbe scoccata. L’attesa dell’offensiva finale si perde senza piani concreti per la presa del potere, annegando in un mare di slogan. Alla fine è costretta a rifluire.
Perché? Perché tanto slancio rivoluzionario è stato portato su un binario morto da un partito nato proprio per rovesciare il capitalismo?
Possiamo solo trarre lezioni generali da questa vicenda. Non avendola vissuta in prima persona abbiamo il dovere di cristallizzare ciò che si sarebbe potuto fare e ciò che non era da farsi. Senza essere dottrinari, libreschi, abbiamo tuttavia il compito di rendere viva la teoria immaginandoci al posto loro.
E dunque perché? Innanzitutto perché un processo rivoluzionario è un processo dialettico, dove la coscienza dei lavoratori condensa 20 anni in 20 minuti ed evolve molto più rapidamente per le strade di quanto possa fare in 20 anni di urne elettorali. Ma perché tali, rari, processi possano essere colti e diretti verso la vittoria è necessario avere idee e metodi chiari, uniti da un partito profondamente radicato in quella classe lavoratrice che si vuole dirigere.
E’ per questa ragione che presto, prestissimo, si sviluppa una contraddizione tra la classe che insorge e la direzione dei suoi partiti storici. Di tali partiti, dei suoi dirigenti, soprattutto ci si fida. Li si spinge ad andare avanti ed essi dialetticamente devono adattarsi o perire. Ma anche questa spinta a un certo punto raggiunge un proprio limite. Un processo rivoluzionario non è soltanto l’ascesa nell’arena politica della classe lavoratrice. E’ anche un violentissimo scontro di idee politiche nel movimento: anzi, è precisamente tale scontro trasportato dalle sedi di partito alle strade e ai consigli di fabbrica e viceversa.
Se è la classe che, a ondate, scende nelle strade per prendere in mano il proprio destino, le idee politiche diventano il banco di prova della loro azione. Quelle maggioritarie rimarranno tali finché andranno incontro ai bisogni delle barricate e delle occupazioni. Una volta divenute inefficaci, o porteranno il movimento alla sconfitta o verranno sostituite da un programma più adeguato. Ma questo accadrà solo se tale programma più adeguato sarà organizzato a soppiantare il precedente.
E’ quanto accaduto tanto nel 1917 in Russia col declino dei menscevichi e l’ascesa del bolscevismo, quanto in Italia col dominio mortale del riformismo e le insufficienze della direzione dell’Ordine Nuovo.
Tutta la critica di Trockij al centrismo della direzione del Partito Socialista è racchiusa negli estratti delle sue introduzioni che pubblichiamo: il rivoluzionarismo verbale ha ucciso il Biennio Rosso.
Tutti i limiti organizzativi del partito, che l’ascesa dei lavoratori aveva messo a nudo, avrebbero potuto in ogni caso essere recuperati proprio grazie a questa ascesa. Tutta la fase di preparazione del partito a questi eventi, una lunga fase democratica come quella in cui siamo nati noi, viene messa alla prova in pochi mesi. Anni di idee maturate nella tranquillità della democrazia parlamentare vengono scosse dall’assenza di concessioni da parte dei signori della società. O si guida gli sfruttati ad andare fino in fondo, organizzandone la forza ed esprimendone il programma, o si viene brutalmente sconfitti.
Senza mezzi termini si può dire che che, se la prima fase aveva impietosamente messo in ginocchio la corrente riformista nella società, l’apice del Biennio Rosso metterà a nudo tutta l’inettitudine della corrente centrista.
Il bilancio di un marxista, tuttavia, non è mai un esercizio accademico. E’ semmai il tentativo di apprendere per non ripetere gli errori. S’è persa una fiducia colossale verso i partiti della classe, sia che si tratti del Partito Socialista, sia che si tratti del neonato Partito Comunista d’Italia. Ma per entrambi sono proprio le condizioni oggettive, condizioni di vuoto e diffidenza attorno a sé, a imporre di “colpire uniti e marciare separati”, ossia di sviluppare quella tattica del fronte unico necessaria a rompere con i riformisti senza perdere di vista la base che li ha sostenuti fino a pochi mesi prima. Una tattica utile allo stesso modo alle giovani forze comuniste, il cui lavoro di costruzione cominciava proprio in un periodo in cui la borghesia stava per riorganizzare una controffensiva che, con l’aiuto dei settori più arretrati della società, sarebbe durata 20 anni.
Questa condizione della rottura dei riformisti verrà ribadita come condizione per aderire all’Internazionale Comunista.
In questa ultima sezione, che chiude un ampio percorso di lettura sul Biennio rosso, vi presentiamo scritti di Trockij di Gramsci e una lettera di Gramsci ad Alfonso Leonetti, tra i principali leader della sinistra interna del Pcd’I, poi espulso dalla direzione togliattiana.
Abbiamo messo assieme questo materiale, per quanto breve, proprio per l’incisività del bilancio. E’ proprio nei due articoli di Gramsci che vi proponiamo che emerge quanto il rivoluzionario italiano fosse consapevole non solo del tradimento dei dirigenti riformisti del PSI ma anche dei propri errori di dirigente dell’Ordine Nuovo e dell’opposizione interna al Partito Socialista. Sono gli scritti in cui Gramsci ammette l’errore di non aver costituito una frazione nazionale, lasciando che le enormi riserve del proletariato italiano si esaurissero rincorrendo i proclami dei dirigenti riformisti.
Sono gli scritti, e ci dicono molto in questa fase in cui molti dirigenti riformisti cercano di riassemblare una massa critica utile a non perire, in cui Gramsci spiega con pazienza il comportamento vile ed empirico dei funzionari sindacali quando è la classe a scendere nelle strade, ad incrociare le braccia, senza averlo prima pattuito con loro. Uno strato di funzionari cresciuto in un altro pianeta, costretto ad adeguarsi o perire.
Sono in altre parole complementari, con la sola differenza che Gramsci non avrebbe avuto il tempo materiale di essere coerente con la propria autocritica perché alle soglie dell’arresto.
Oggi dunque presentiamo un tesoro di lezioni, per noi attivisti del XXI secolo.
E ne siamo certi, il Biennio Rosso tornerà.
La crisi del capitalismo mondiale e di quello italiano, la crisi della direzione sindacale e politica dei lavoratori italiani, il rafforzamento numerico della classe lavoratrice e le sue condizioni di sfruttamento inedito, l’assenza di vie di uscita semplici e concertate presto o tardi ci costringeranno nuovamente ad impugnare il nostro destino.
Certo, incontreremo nuovi Serrati e nuovi Lazzari e trameranno nell’ombra nuovi Turati. Ma saranno più deboli, con meno autorità, con una presa più sfuggente, perché priva di un lungo periodo di precedenti conquiste “democratiche”.
Ma ci troverà più pronti questa volta, perché avremo appreso la lezione. Soprattutto perché queste lotte politiche saranno rese possibili solo con una nuova esplosione di Consigli operai, di fabbrica, di negozio, di ufficio, di deposito, del “decidiamo noi” e dello scontro, politicamente violentissimo, tra riformismo e marxismo nella sinistra italiana.
Ed allora perfino piccoli contributi come questo percorso di lettura potrebbe rivelarsi molto più prezioso di tante lezioni di storia solo apparentemente neutrali.