Se, nel settembre 1920, i comunisti torinesi fossero stati anarchici invece di essere comunisti, il movimento per l’occupazione delle fabbriche avrebbe avuto sbocchi molto diversi da quelli che effettivamente ha avuto: questo è il succo di una corrispondenza torinese a Umanità Nova, in cui si riaffermano le nostre grandi responsabilità per la mancata rivoluzione.

Che peccato! I comunisti torinesi, nel settembre 1920, erano infatti comunisti e non anarchici; fin da quel tempo ritenevano che «rivoluzione proletaria» significhi e possa significare solamente creazione di un governo rivoluzionario; fin da quel tempo ritenevano che un governo rivoluzionario possa crearsi solo in quanto esiste un partito rivoluzionario, organizzato nazionalmente, che sia capace di condurre un’azione di massa fino a questo obiettivo storicamente concreto.

I comunisti torinesi appartenevano al Partito socialista italiano, erano inscritti alla sezione torinese; al Partito e alla sezione appartenevano anche i riformisti dirigenti la Confederazione generale del lavoro. Il movimento era stato scatenato dai riformisti. I comunisti torinesi, come appare dall’Ordine Nuovo settimanale del 15 agosto 1920, erano contrari all’azione impostata dalla FIOM, per il modo con cui era stata impostata, per il fatto che non era stata preceduta da una preparazione, per il fatto che non aveva un fine concreto. Date queste condizioni di fatto, il movimento poteva sboccare in una rivoluzione solo a patto che i riformisti continuassero a dirigerlo. Se i riformisti una volta iniziata l’azione, una volta che l’azione aveva preso l’importanza e il carattere che aveva preso, l’avessero condotta fino alle sue conseguenze logiche, certo la grande maggioranza del proletariato e anche larghi strati della piccola borghesia e dei contadini avrebbero seguito la loro parola d’ordine.

Se invece i comunisti torinesi, di loro iniziativa, avessero iniziato l’insurrezione, Torino sarebbe stata isolata, Torino proletaria sarebbe stata implacabilmente schiacciata dalle forze armate del potere di Stato.[1] Nel settembre 1920 Torino non avrebbe avuto neppure la solidarietà della regione piemontese, come l’aveva avuta nell’aprile precedente. La campagna scellerata che i funzionari sindacali e gli opportunisti serratiani fecero contro i comunisti torinesi dopo lo sciopero d’aprile aveva avuto effetto specialmente nel Piemonte: i torinesi non potevano neppure accostare i compagni della regione; non si credeva una parola di quanto affermavano, si domandava sempre loro se avevano un mandato esplicito della direzione del Partito; tutta l’organizzazione creata da Torino per la regione si era completamente sfasciata.

Il corrispondente torinese di Umanità Nova che conosce forse gli sforzi di organizzazione fatti in quel periodo, non conosce certamente molte altre cose. I comunisti cercarono di porre il proletariato torinese nelle condizioni migliori dal punto di vista di una probabile insurrezione; sapevano però che altrove niente si faceva, che nessuna parola d’ordine circolava; sapevano che i dirigenti sindacali, responsabili del movimento, non avevano nessuna intenzione bellicosa.

Per un periodo di tempo brevissimo, di tre o quattro giorni, i dirigenti sindacali furono favorevolissimi all’insurrezione, sollecitarono pazzescamente l’insurrezione. Perché? Pareva che Giolitti, premuto dagli industriali, che minacciarono apertamente di rovesciare il governo con un pronunciamento militarista, volesse passare dalla «omeopatia» alla «chirurgia»; ci furono evidentemente delle minacce da parte di Giolitti.

I dirigenti persero la testa: volevano il «fattaccio», volevano una strage locale che permettesse di concludere nazionalmente la vertenza secondo le tradizioni riformistiche. Abbiamo fatto bene o male a rifiutarci a questo gioco infame, che doveva essere azzardato col sangue del proletariato torinese? Davvero che a forza di ripetere, dall’aprile in poi, che i comunisti torinesi erano degli scalmanati, degli irresponsabili, dei localisti, degli avventurieri, i riformisti avevano finito col crederci e col credere che noi ci saremmo prestati al loro gioco. Non sono state giornate facili quelle del settembre 1920; in quei giorni abbiamo acquistato, forse tardi, la precisa e recisa convinzione della necessità della scissione. Come era possibile che stessero insieme, in uno stesso partito, uomini che diffidavano gli uni degli altri, che si accorgevano della necessità, proprio nel momento dell’azione, di guardarsi alle spalle dai propri consoci?

Questa era la situazione, e noi non eravamo anarchici ma comunisti, cioè convinti della necessità di un partito nazionale perché la rivoluzione proletaria abbia un minimo di probabilità di buona riuscita. Ma se anche fossimo stati anarchici, avremmo fatto diversamente? C’è un punto di riferimento per rispondere a questa domanda: nel settembre 1920 esistevano bene in Italia gli anarchici, esisteva un movimento anarchico nazionale. Cosa hanno fatto gli anarchici? Nulla. Se noi fossimo stati anarchici, non avremmo neppure fatto ciò che è stato fatto a Torino nel settembre 1920, e cioè una preparazione notevole, certamente, dato che era dovuta a sforzi puramente locali, senza aiuti, senza consigli, senza una integrazione nazionale.

Se gli anarchici riflettono bene ai fatti del settembre 1920 non possono che giungere a una conclusione: la necessità del partito politico, fortemente organizzato e centralizzato. Appunto perché il Partito socialista, per la sua incapacità, per la sua subordinazione ai funzionari sindacali, è il responsabile della mancata rivoluzione, appunto perciò deve esistere un partito che la sua organizzazione nazionale ponga a servizio della rivoluzione proletaria, che prepari con la discussione e con la disciplina ferrea gli uomini capaci, che sappiano prevedere, che non conoscano esitazioni e tentennamenti.

 

Note:

[1] In questo articolo  Gramsci polemizza frontalmente sia con le direzioni riformiste del PSI e della CGL, colpevoli di avere consapevolmente dirottato su un binario morto una situazione rivoluzionaria facendo leva sulla direzione del movimento, sia con gli anarchici, il cui avventurismo infantile avrebbe isolato i lavoratori torinesi prima ancora di cominciare davvero la lotta.