Guida alla lettura
Al Congresso camerale tenuto in Torino dal 15 al 17 giugno 1919, discutendosi della riforma del Consiglio generale, in considerazione dei contrasti tra grandi e piccole organizzazioni per la reciproca rappresentanza, feci la proposta che il C. G. fosse costituito dalle Commissioni interne dei singoli stabilimenti, anziché da consiglieri nominati dai Consigli direttivi delle leghe. Allora si rise della mia proposta e di quello che io dicevo della necessità di modificare l’ordinamento degli organismi direttivi della lotta di classe. A quattro mesi di distanza un Congresso camerale straordinario viene convocato unicamente per discutere dei Consigli di officina e dei loro rapporti con i Sindacati.
Nella storia dei Sindacati di mestiere è questo un fatto nuovo, ed è degno della più grande attenzione lo spirito che spinge gli operai a lavorare per la costituzione dei loro Consigli, mentre tanto scetticismo regna ancora tra coloro che limitano la propria visuale al ristretto orizzonte degli interessi della loro lega. Questo scetticismo è prodotto dal fatto che nelle organizzazioni economiche per modificare un articolo di statuto occorrono lunghe discussioni e parecchie assemblee, e si ha sempre timore di andare troppo in fretta, di fare passi troppo lunghi, di far perdere alla organizzazione parte del suo potere e del suo valore. Ora, andare cauti e stare in guardia sta bene ma ciò non vuol dire precludersi la via a fare l’ esperienza di forme nuove, che diano la prova positiva e irrefutabile della loro capacità a sviluppare in minor tempo possibile la coscienza di classe, ad addestrare gli elementi migliori alla gestione collettiva delle fabbriche.
Completamente lontani dallo scetticismo sono invece gli operai che partecipano al movimento dei Consigli. Se esso è spontamentamente diventato così forte ed ha acquistato una così grande capacità espansiva anche prima di aver ricevuto una sanzione ufficiale, ciò si deve alla grande propaganda che negli ultimi due anni si è fatta a favore del sistema di governo soviettista. Gli operai torinesi vedono nel Consiglio una forma embrionale di avviamento al governo diretto dei produttori, alla realizzazione della dittatura economica del proletariato. Ed ecco l’idea e la pratica dei Consigli diffondersi in forma endemica, sopra un terreno ben preparato dalla propaganda politica. Tra operai non si discute che di quello. Nel passato si disputava, si lottava pel trionfo del proprio punto di vista, della propria tendenza nella organizzazione o nel partito, ora si discute e si lavora di comune accordo per dare prontamente alla nuova istituzione basi solide, e si è giunti a un punto tale che ormai nessuna reazione, da qualunque parte essa venga, riuscirà più a distruggere il lavoro compiuto.
Il principio che è stato meglio afferrato dagli operai è che, prima di portare la rivoluzione nelle vie, bisogna essersi posto il problema della creazione degli organi primitivi della futura comunità produttiva. Si è consapevoli delle difficoltà e delle responsabilità, si cerca di eliminare i possibili errori. Citiamo ad esempio l’atteggiamento tenuto di fronte ai capi tecnici e agli impiegati metallurgici nelle controversie e nelle lotte che essi hanno sostenuto contro gli industriali. Gli operai furono con loro pienamente solidali, essendo oramai convinti della necessità che le tre categorie di lavoratori d’officina (lavoratori manuali, personale tecnico e personale amministrativo) siano unite per conquistare la fabbrica per la gestione comune.
Una prova del lavoro che si compie si ha del resto nelle riunioni numerose e prolungate fino a tarda ora, a cui partecipa un sempre maggior numero di commissari, sia nell’officina, sia nei Circoli rionali, sia nella Casa del Popolo.
È un lavoro che si compie sotto gli occhi di tutti, e che nessuno potrà impedire. Tanto si è radicata nell’animo dei migliori la coscienza della necessità di questo lavoro, che porre fine ad esso si potrebbe soltanto sopprimendo gli operai stessi. Noi non facciamo mistero dell’opera nostra. Lavoriamo alla luce del sole, e più con fatti che con parole dimostriamo di saper difendere i nostri compagni sul lavoro, tutelare la loro dignità, guidarli alla costruzione di un mondo nel quale sia vero che soltanto chi lavora ha il potere e soltanto chi lavora può mangiare.
Voglio dare qualche esempio dello spirito di disciplinato entusiasmo, quasi vorrei dire dello spirito religioso che anima coloro che prendono parte al nuovo movimento: i Commissari che vogliono incominciare a esercitare il controllo nella fabbrica, gli operai che li eleggono, li sostengono e si stringono attorno ad essi. Sono episodi che mostrano come si manifesti in forme nuove lo spirito della lotta di classe.
In un’officina entra un nuovo capo reparto, proveniente da altra fabbrica, già conosciuto dagli operai e giudicato in modo tutt’altro che favorevole. È accolto da proteste e fischi; in un attimo tutte le macchine sono ferme. Il capo reparto abbandona immediatamente l’officina, e la Commissione interna dà ordine di continuare il lavoro soltanto dopo essersi abboccata con la Direzione, e in attesa che siano chieste informazioni alle C. I. dell’officina da cui proviene il nuovo capo. Avute informazioni nel complesso soddisfacenti ritorna la calma, ma il capo invitato dalla Direzione a prendere il suo posto sente il dovere di intendersi prima con la C. I., dichiarando di non potere e di non volere dirigere una officina contro la volontà degli operai. E si noti che un capo respinto da una officina difficilmente potrebbe entrare in un’altra, perché tutte le C. I. in casi simili si rendono solidali.
Si dirà che sono prepotenze, noi diciamo che sono i lavoratori i quali incominciano a voler essere considerati come uomini anche sul luogo del lavoro, i quali rispettano la capacità e la funzione tecnica ma non vogliono che essa degeneri in una funzione di polizia. .
Un altro esempio, più significativo. In una officina di 100 operai che, quantunque sia isolata e abbia un direttore a sé dipende però amministrativamente e porta la ditta di una grande fabbrica di automobili, la produzione è molto inferiore alla capacità produttiva. L’officina è passiva, e gli operai ne subiscono le _dirette conseguenze perché naturalmente il guadagno diminuisce. Inoltre, come sempre avviene, la direzione riversa sugli operai tutta la colpa della diminuita produttività: si accusano le otto ore, le nuove paghe ecc. Ed ecco intervenire la Commissione interna la quale si reca in Direzione ed espone quelle che secondo lei sono le cause della crisi:
Da mesi si lavora ad economia per preparare la costruzione in serie, ma i lavori procedono troppo lentamente e con troppa indecisione; si introducono continuamente modificazioni, alcune palesemente non necessarie; non si tiene nessun conto delle esperienze di chi lavora; inoltre, ed è il male più grande, il personale direttivo non pensa che a fare lauti guadagni, a conquistare posti sempre più elevati, non perfezionando le lavorazioni, ma con intrighi e lotte personali. Tutto questo si compie sotto gli occhi di noi operai, tutto questo ci danneggia in modo sensibile. Ora noi non vogliamo fare le spese per nessuno, se l’officina è passiva la direzione introduca tutti i necessari perfezionamenti tecnici e noi non li ostacoleremo; crediamo che per ora questo studio spetti all’ufficio tecnico, esso si metta dunque all’opera. La maestranza è a disposizione della ditta per otto ore al giorno, essa però non viene in officina per divertirsi o per passare il tempo, ci viene per produrre, perché sa che nella sua capacità produttiva è la sua forza sociale. Se non si produce a sufficienza essa non vuole esserne ritenuta responsabile …
La Direzione rimase stupita di queste dichiarazioni e non poté fare a meno di assicurare la C. I. che si sarebbe provveduto. Infatti il risultato fu istantaneo. Direttori, capi-officina e capi-reparto si posero all’opera, e la produzione tornò ad aumentare.
Quest’ultimo esempio dimostra come il controllo sia un campo tutto nuovo che si schiude ai Commissari di reparto e alle Commissioni interne. Ed è necessario entrarvi perché gli industriali, o per essi la burocrazia industriale, disperando ormai di poter costringere la classe operaia a una «fraterna» cooperazione, e non potendo ricacciarla nella soggezione di un tempo, rallentano la sorveglianza sull’andamento generale e particolare delle officine, e tendono finanche a creare disordini, per provocare esitazioni e dubbi nella classe che vuol impadronirsi del potere e della gestione sociale. I rappresentanti del proletariato (Commissari di reparto e Commissioni interne) debbono vigilare.
I nostri nemici sentono ormai ineluttabile l’avvento della dittatura operaia; continuamente sono in grado di constatare il progresso della coscienza comunista nella massa; soprattutto si sentono impotenti a spezzare l’unità della classe (dal manovale all’ingegnere) che si realizza nella sua stessa casa, nell’officina, si sentono impotenti a frenare il movimento per costituire gli organi del nostro potere che noi facciamo partire dal reparto dove siamo riuniti per lavorare. Qui non servono a nulla le mitragliatrici e le manette, perché qui si crea pure la loro ricchezza. La rabbia e la paura possono consigliar loro di adoperare altre armi, subdole e traditrici. Mostriamo di saper spezzare anche queste nelle loro mani.
ENEA MATTA
(operaio in carrozzeria)