Guida alla lettura

Questo articolo, pubblicato sull’Ordine Nuovo del gennaio del 1920, è la testimonianza diretta di un lavoratore sul processo di formazione dei Consigli di fabbrica e sul loro funzionamento. Riteniamo interessante questo scritto anche per dare un’idea del dualismo di potere che si sviluppa nelle fabbriche per opera dei Commissari di reparto.

Al Congresso camerale tenuto in Torino dal 15 al 17 giugno 1919, discutendosi della riforma del Consiglio ge­nerale, in considerazione dei contrasti tra grandi e piccole organizzazioni per la reciproca rappresentanza, feci la pro­posta che il C. G. fosse costituito dalle Commissioni interne dei singoli stabilimenti, anziché da consiglieri nominati dai Consigli direttivi delle leghe. Allora si rise della mia proposta e di quello che io dicevo della necessità di modifi­care l’ordinamento degli organismi direttivi della lotta di classe. A quattro mesi di distanza un Congresso camerale straordinario viene convocato unicamente per discutere dei Consigli di officina e dei loro rapporti con i Sindacati.

Nella storia dei Sindacati di mestiere è questo un fatto nuovo, ed è degno della più grande attenzione lo spirito che spinge gli operai a lavorare per la costituzione dei loro Consigli, mentre tanto scetticismo regna ancora tra coloro che limitano la propria visuale al ristretto orizzonte degli interessi della loro lega. Questo scetticismo è prodotto dal fatto che nelle organizzazioni economiche per modificare un articolo di statuto occorrono lunghe discussioni e pa­recchie assemblee, e si ha sempre timore di andare troppo in fretta, di fare passi troppo lunghi, di far perdere alla or­ganizzazione parte del suo potere e del suo valore. Ora, andare cauti e stare in guardia sta bene ma ciò non vuol dire precludersi la via a fare l’ esperienza di forme nuove, che diano la prova positiva e irrefutabile della loro capaci­tà a sviluppare in minor tempo possibile la coscienza di classe, ad addestrare gli elementi migliori alla gestione col­lettiva delle fabbriche.

Completamente lontani dallo scetticismo sono invece gli operai che partecipano al movimento dei Consigli. Se esso è spontamentamente diventato così forte ed ha acquistato una così grande capacità espansiva anche prima di aver ricevuto una sanzione ufficiale, ciò si deve alla grande propaganda che negli ultimi due anni si è fatta a favore del sistema di governo soviettista. Gli operai torinesi vedono nel Consiglio una forma embrionale di avviamento al go­verno diretto dei produttori, alla realizzazione della dit­tatura economica del proletariato. Ed ecco l’idea e la pra­tica dei Consigli diffondersi in forma endemica, sopra un terreno ben preparato dalla propaganda politica. Tra ope­rai non si discute che di quello. Nel passato si disputava, si lottava pel trionfo del proprio punto di vista, della pro­pria tendenza nella organizzazione o nel partito, ora si di­scute e si lavora di comune accordo per dare prontamente alla nuova istituzione basi solide, e si è giunti a un punto tale che ormai nessuna reazione, da qualunque parte essa venga, riuscirà più a distruggere il lavoro compiuto.

Il principio che è stato meglio afferrato dagli operai è che, prima di portare la rivoluzione nelle vie, bisogna es­sersi posto il problema della creazione degli organi primi­tivi della futura comunità produttiva. Si è consapevoli del­le difficoltà e delle responsabilità, si cerca di eliminare i possibili errori. Citiamo ad esempio l’atteggiamento tenu­to di fronte ai capi tecnici e agli impiegati metallurgici nel­le controversie e nelle lotte che essi hanno sostenuto con­tro gli industriali. Gli operai furono con loro pienamente solidali, essendo oramai convinti della necessità che le tre categorie di lavoratori d’officina (lavoratori manuali, per­sonale tecnico e personale amministrativo) siano unite per conquistare la fabbrica per la gestione comune.

Una prova del lavoro che si compie si ha del resto nelle riunioni numerose e prolungate fino a tarda ora, a cui par­tecipa un sempre maggior numero di commissari, sia nell’officina, sia nei Circoli rionali, sia nella Casa del Popolo.

È un lavoro che si compie sotto gli occhi di tutti, e che nessuno potrà impedire. Tanto si è radicata nell’animo dei migliori la coscienza della necessità di questo lavoro, che porre fine ad esso si potrebbe soltanto sopprimendo gli operai stessi. Noi non facciamo mistero dell’opera nostra. Lavoriamo alla luce del sole, e più con fatti che con parole dimostriamo di saper difendere i nostri compagni sul lavoro, tutelare la loro dignità, guidarli alla costruzione di un mondo nel quale sia vero che soltanto chi lavora ha il potere e soltanto chi lavora può mangiare.

Voglio dare qualche esempio dello spirito di disciplina­to entusiasmo, quasi vorrei dire dello spirito religioso che anima coloro che prendono parte al nuovo movimento: i Commissari che vogliono incominciare a esercitare il con­trollo nella fabbrica, gli operai che li eleggono, li sosten­gono e si stringono attorno ad essi. Sono episodi che mo­strano come si manifesti in forme nuove lo spirito della lotta di classe.

In un’officina entra un nuovo capo reparto, proveniente da altra fabbrica, già conosciuto dagli operai e giudicato in modo tutt’altro che favorevole. È accolto da proteste e fischi; in un attimo tutte le macchine sono ferme. Il capo reparto abbandona immediatamente l’officina, e la Commissione interna dà ordine di continuare il lavoro soltanto dopo essersi abboccata con la Direzione, e in attesa che siano chieste informazioni alle C. I. dell’officina da cui pro­viene il nuovo capo. Avute informazioni nel complesso soddisfacenti ritorna la calma, ma il capo invitato dalla Direzione a prendere il suo posto sente il dovere di inten­dersi prima con la C. I., dichiarando di non potere e di non volere dirigere una officina contro la volontà degli operai. E si noti che un capo respinto da una officina dif­ficilmente potrebbe entrare in un’altra, perché tutte le C. I. in casi simili si rendono solidali.

Si dirà che sono prepotenze, noi diciamo che sono i la­voratori i quali incominciano a voler essere considerati co­me uomini anche sul luogo del lavoro, i quali rispettano la capacità e la funzione tecnica ma non vogliono che essa degeneri in una funzione di polizia. .

Un altro esempio, più significativo. In una officina di 100 operai che, quantunque sia isolata e abbia un diretto­re a sé dipende però amministrativamente e porta la ditta di una grande fabbrica di automobili, la produzione è molto inferiore alla capacità produttiva. L’officina è passiva, e gli operai ne subiscono le _dirette conseguenze perché naturalmente il guadagno diminuisce. Inoltre, come sempre avviene, la direzione riversa sugli operai tutta la colpa della diminuita produttività: si accusano le otto ore, le nuove paghe ecc. Ed ecco intervenire la Commissione interna la quale si reca in Direzione ed espone quelle che secondo lei sono le cause della crisi:

Da mesi si lavora ad economia per preparare la costru­zione in serie, ma i lavori procedono troppo lentamente e con troppa indecisione; si introducono continuamente mo­dificazioni, alcune palesemente non necessarie; non si tiene nessun conto delle esperienze di chi lavora; inoltre, ed è il male più grande, il personale direttivo non pensa che a fare lauti guadagni, a conquistare posti sempre più elevati, non perfezionando le lavorazioni, ma con intrighi e lotte personali. Tutto questo si compie sotto gli occhi di noi ope­rai, tutto questo ci danneggia in modo sensibile. Ora noi non vogliamo fare le spese per nessuno, se l’officina è pas­siva la direzione introduca tutti i necessari perfezionamenti tecnici e noi non li ostacoleremo; crediamo che per ora que­sto studio spetti all’ufficio tecnico, esso si metta dunque al­l’opera. La maestranza è a disposizione della ditta per otto ore al giorno, essa però non viene in officina per divertirsi o per passare il tempo, ci viene per produrre, perché sa che nella sua capacità produttiva è la sua forza sociale. Se non si produce a sufficienza essa non vuole esserne ritenuta re­sponsabile …

La Direzione rimase stupita di queste dichiarazioni e non poté fare a meno di assicurare la C. I. che si sarebbe provveduto. Infatti il risultato fu istantaneo. Direttori, capi-officina e capi-reparto si posero all’opera, e la produ­zione tornò ad aumentare.

Quest’ultimo esempio dimostra come il controllo sia un campo tutto nuovo che si schiude ai Commissari di reparto e alle Commissioni interne. Ed è necessario entrarvi per­ché gli industriali, o per essi la burocrazia industriale, disperando ormai di poter costringere la classe operaia a una «fraterna» cooperazione, e non potendo ricacciarla nella soggezione di un tempo, rallentano la sorveglianza sull’an­damento generale e particolare delle officine, e tendono finanche a creare disordini, per provocare esitazioni e dubbi nella classe che vuol impadronirsi del potere e della gestione sociale. I rappresentanti del proletariato (Commissari di reparto e Commissioni interne) debbono vigilare.

I nostri nemici sentono ormai ineluttabile l’avvento della dittatura operaia; continuamente sono in grado di constatare il progresso della coscienza comunista nella massa; soprattutto si sentono impotenti a spezzare l’unità della classe (dal manovale all’ingegnere) che si realizza nella sua stessa casa, nell’officina, si sentono impotenti a frenare il movimento per costituire gli organi del nostro potere che noi facciamo partire dal reparto dove siamo riuniti per la­vorare. Qui non servono a nulla le mitragliatrici e le ma­nette, perché qui si crea pure la loro ricchezza. La rabbia e la paura possono consigliar loro di adoperare altre armi, subdole e traditrici. Mostriamo di saper spezzare anche queste nelle loro mani.

 

ENEA MATTA

(operaio in carrozzeria)