
Si dice che la storia sia scritta dai vincitori. La rivoluzione ungherese, vinta due volte, ha visto due volte riscritta la propria storia.Schiacciando nel sangue gli operai ungheresi nel 1956, la burocrazia sovietica si guadagnò per prima il diritto ad affermare la propria versione dei fatti: in Ungheria c’era stata una sollevazione fascista e filo-capitalista, felicemente contrastata dalle truppe mandate dall’Urss.Come succede a un curatore fallimentare, al momento del crollo dello stalinismo, il capitalismo occidentale ereditò il diritto a diffamare la rivoluzione e a piegarne la memoria a proprio comodo. Proprio l’Ungheria del resto era stato il primo paese nel 1989 ad aprire il varco nella cortina di ferro, lasciando passo libero all’esodo di migliaia di persone dall’Est, e in particolare dalla Germania Orientale, verso l’Occidente.La storiografia borghese rivalutò quindi la rivoluzione ungherese del 1956 come un’anticipazione del 1989. I rivoluzionari ungheresi del ’56 divennero l’icona, la prova provata, dell’esistenza da sempre di un vasto consenso popolare a favore della restaurazione del capitalismo.
Storiografia stalinista, capitalista e di estrema destra finivano così per coincidere su questo punto: il ’56 ungherese era stato un movimento liberale, se non addirittura di destra, egemonizzato da Chiesa, nazionalisti e forze restauratrici.
Un’interpretazione dei fatti che in verità non spiega nulla: come è possibile che le forze filo-capitaliste o addirittura di estrema destra riuscissero a mobilitare un paese intero controllato dal partito comunista ungherese sotto la costante supervisione di Mosca? Come erano riuscite ad aggirare il controllo della rigida e efferata polizia politica ungherese, nonostante le numerose epurazioni effettuate dalla stessa negli anni precedenti? Come avevano potuto far sorgere su tutto il territorio ungherese consigli operai e municipali, paragonabili per funzioni e struttura ai soviet del 1917? E ancora: perché in quei giorni nessun Governo occidentale aveva rivendicato quanto stava accadendo a Budapest?
Anche volendo credere alla versione stalinista, si dovrebbe quanto meno arrivare alla conclusione che l’intero partito comunista ungherese fosse talmente cieco e lontano dal paese reale, da non riuscire a presagire lo scoppio di una insurrezione controrivoluzionaria su larga scala. Si dovrebbe quanto meno prendere atto che il malcontento tra operai e contadini nel bel mezzo di una società socialista fosse tale da renderli terreno fertile per l’egemonia delle forze di destra. In poche parole, la versione stalinista dei fatti di Ungheria del 1956 costituirebbe in ogni caso un atto d’accusa senza appello per lo stalinismo stesso.
Esiste in verità un punto eluso da ognuna delle storiografie sopra citate: il 1956 ungherese fu un movimento essenzialmente operaio. Anticipato inizialmente dal movimento dei giovani e degli scrittori, fu dominato dal protagonismo del distretto industriale di Budapest e in particolare dalle concentrazioni operaie sull’isola di Csepel. In nessuna delle piattaforme rivendicative elaborate dagli insorti prima, durante e perfino dopo la repressione dei carri armati sovietici, fu mai anche solo accennata la richiesta di ritorno al capitalismo o di privatizzazione dell’economia.
Nè si trattò di un movimento di natura “nazionale” o spinto da rivendicazioni “nazionaliste”. L’ottobre ungherese del 1956 arrivava dopo le mobilitazioni di Berlino del 1953 e dopo quelle di Poznan (Polonia) del giugno 1956. E anche in questi casi non si era trattato di movimenti di piccoli proprietari, commercianti o studenti agiati. Non si era trattato del colpo di coda della classe dominante espropriata qualche anno prima o delle pulsioni reazionarie del sottobosco di piccoli proprietari che bramava il ritorno al mercato. Si era trattato di moti squisitamente operai.
E fu proprio in solidarietà al movimento polacco che di fatto cominciò quello ungherese.
Non esiste quindi solo un ’56 ungherese, ma un vasto fermento che negli anni ’50 attraversò sotto varie forme i paesi del cosiddetto Patto di Varsavia. E ovunque tale fermento trovava il protagonismo dei settori più avanzati e compatti della classe operaia. Il dossier Chruščëv e il cosiddetto processo di destalinizzazione da parte dei vertici del Pcus furono il tentativo da parte della burocrazia sovietica di fare concessioni, di allentare la pressione, prima che venisse raggiunto il punto critico. La storia tuttavia aveva preso il proprio corso: ogni atto d’autorità di Mosca accelerava la rivoluzione. E ogni concessione la galvanizzava.
Un fermento di tale natura e diffusione non può essere spiegato con l’azione di occulti agitatori filo-capitalisti. L’unica visione materialista che se ne può dare ci sembra la seguente: occupando l’Europa dell’Est, l’Urss aveva inglobato nella propria sfera di influenza economie complesse e variegate. La pianificazione burocratica dell’economia nazionalizzata da parte del Cremlino cozzava in continuazione con le necessità di sviluppo delle forze produttive. In assenza di una reale democrazia operaia, lo stalinismo teneva vivo lo stimolo alla produzione attraverso il cottimo o la repressione. Nel proletariato dei paesi dell’est si diffondevano così due atteggiamenti opposti ma speculari: l’apatia e il disinteresse verso economia e società, o d’altra parte la corsa individualista alla produzione a cottimo. Atteggiamenti che sono entrambi la base potenziale per il distacco della classe da una qualsiasi coscienza socialista e i primi segnali di una propensione all’accettazione del ritorno al capitalismo.
Negli anni ’50 questa psicologia era ben lungi dall’aver preso il sopravvento. Erano ancora vive le forze che avevano condotto la Resistenza al nazismo. E ardeva ancora l’entusiasmo illusorio con cui si era salutato l’arrivo dell’Armata Rossa. Fu sulla base di queste aspettative tradite che la classe operaia ungherese bussò alla porta della storia per chiedere cosa fosse stato del socialismo.
E non è un caso che il tema del controllo operaio sulle aziende, e di conseguenza sul come, cosa, quanto produrre, diventasse subito determinante e centrale nelle richieste dei rivoluzionari. Un tema che si intrecciava da un lato con le richieste salariali e con l’avversione verso il cottimo, dall’altro con la richiesta di un diverso controllo sullo Stato e con l’abolizione del regime di repressione poliziesco.
In pratica gli operai ungheresi affermarono, traendo spontaneamente questa conclusione dalla propria esperienza, che non ci poteva essere socialismo senza democrazia operaia. La rivoluzione a cui diedero vita non chiedeva quindi il cambio del regime economico, ma di quello politico. In ultima analisi si era verificato quel cozzo tra economia nazionalizzata e regime burocratico previsto da Trotsky, e sulla base del quale il rivoluzionario bolscevico aveva lanciato la consegna della “rivoluzione politica” in Urss.
Ma la rivoluzione ungherese avrebbe potuto evolvere verso destra e aprire le porte alla restaurazione del capitalismo, indipendentemente dalla volontà soggettiva di chi l’aveva cominciata? Non ci vogliamo sottrarre a questa domanda. Nella storia si sono conosciute varie rivoluzioni deviate in corso d’opera. Nel caso ungherese ci sentiamo di rispondere però negativamente. La tecnica delle “rivoluzioni arancioni”, di finti sommovimenti rivoluzionari eterodiretti dall’esterno, era ancora lontana dall’essere sviluppata dall’imperialismo. Negli anni ’50 con Mao e Tito che avevano preso il potere, un movimento operaio e comunista forte in quasi tutta Europa, con la rivoluzione che si diffondeva nei cosiddetti ex paesi coloniali, l’imperialismo voleva tutto tranne che un paese europeo in mano a consigli operai e municipali democraticamente eletti e alla ricerca di una reale democrazia operaia. Gli operai ungheresi che rivendicavano il controllo sul proprio Stato e sulle proprie aziende difficilmente avrebbero accettato il dominio del capitale privato e dell’imperialismo.
Il 1956 non fu quindi l’anticipazione del 1989. Fu al contrario l’unico modo in cui lo si sarebbe potuto evitare. E’ un dato di fatto che nel 1956 in Ungheria fu abbattuta la statua di Stalin e non i riferimenti a Marx o Lenin. Fu un momento storico in cui fu fatta una precisa distinzione tra socialismo e stalinismo, in cui si provò a staccare i vagoni della cricca burocratica di Mosca dalla marcia della locomotiva della storia.
Anni di contraddizioni avevano portato spontaneamente la classe operaia ungherese a farsi carico dell’esigenza storica di riscattare la società comunista dal dominio stalinista. Ma processi che si erano accumulati per anni si condensavano negli avvenimenti di pochi giorni. In assenza di una qualsiasi organizzazione politica, la direzione della rivoluzione cadde in mano a una delle frazioni del partito comunista ungherese, quella di Imre Nagy. Uomo di apparato, seppur da anni in posizione minoranza, Nagy non concepiva i processi storici ma solo il mutuo manovrare delle correnti interne al partito. Il ruolo che riservava per sé era quello di giocare con Mosca al poliziotto buono e a quello cattivo, per cavalcare e ingraziarsi la rivoluzione. Il compito che si prefiggeva non era salvare la rivoluzione da Mosca, ma salvare Mosca dalla rivoluzione attraverso una serie di concessioni e un Governo meno inviso al proletariato ungherese.
Quando Mosca scelse la carta della repressione frontale, il primo ad esserne sorpreso fu probabilmente lo stesso Nagy. Tale era la profondità del conflitto in corso, che l’Urss non si poteva permettere nemmeno concessioni. I carri armati che avevano abbandonato Budapest alla fine di ottobre, tornarono in forze il 4 di novembre. Nagy fu catturato, processato, condannato a morte, sepolto a faccia in giù in un un luogo segreto. Il proletariato europeo doveva capire la lezione: o con Mosca o con Washington. Nessuna altra via poteva darsi. E il capitalismo occidentale confermò indirettamente con il proprio silenzio, il proprio assenso.
Indice:
Cronologia della rivoluzione ungherese del ’56

Pubblichiamo una cronologia che abbraccia il periodo precedente la rivoluzione del 56, gli avvenimenti stessi della rivoluzione e poi il triste epilogo fatto di repressione, processi e condanne a morte. Riteniamo che possa essere utile ad inquadrare meglio i testi e gli scritti che presentiamo in questo percorso di lettura.
Polonia e Ungheria 1956: l’inizio della fine del sistema staliniano

Pierre Broué | La rivoluzione ungherese dei consigli operai

Ne consigliamo la lettura per completare il quadro di questo avvenimento. Grazie a questo articolo infatti si riesce a far luce sulla vera natura di questa rivoluzione, quale carattere assunse, e quali istanze portava avanti. Come sempre accade nel corso di un processo rivoluzionario, anche nell’Ungheria del ’56 la classe lavoratrice si è dotata in maniera autonoma e spontanea di forme consiliari. I consigli di fabbrica, potenzialmente veri e propri soviet, furono il motore di quel processo. Si tratta di una caratteristica di ogni rivoluzione e il fatto che in ogni processo rivoluzionario sorgano ad un certo punto forme di democrazia diretta, di consigli di fabbrica, comitati o altro ancora, dimostra quanto questo processo sia una tendenza immanente della rivoluzione socialista.
Nel vivo di una rivoluzione i fatti spingono queste forme di organizzazione ad assumere un ruolo politico. In questo modo i consigli arrivano a porre in discussione l’ordine costituito generando un dualismo di potere, ovvero un periodo in cui si contendono con la classe antagonista le leve fondamentali dello Stato, fino a che una delle due forze non ha la meglio sull’altra. Leggi il resto
Andy Anderson | Ungheria ’56 – La comune di Budapest. I consigli operai

Il libro di Andy Anderson “Ungheria 1956. La Comune di Budapest e i Consigli operai” ha perciò avuto un ruolo particolarmente importante nel colmare il vuoto. In poco meno di 200 pagine, riesce ad abbracciare dalla situazione post-bellica nei paesi dell’est fino alla fine della rivoluzione in Ungheria nel 1956. Per tanti militanti in Italia questo libro è stato per anni uno dei più facili da trovare e da leggere per provare a comprendere cosa accadde realmente in Ungheria e ristabilire la verità storica. Leggi il resto
Risoluzioni dei consigli operai di Budapest

Questo è il ruolo dei consigli o Soviet, come venivano chiamati in Russia. In Italia abbiamo assistito a questo fenomeno durante il Biennio Rosso e nell’autunno caldo del ’69.
Dai documenti si evince poi come i lavoratori difendessero “fino alla morte” le conquiste dell’economia socialista, ma al tempo stesso lottassero per un socialismo dove l’elemento della democrazia operaia fosse presente. Leggi il resto