
Nella notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922 inizia la marcia su Roma. Decine di migliaia di camicie nere, guidate dai quadrumviri Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi si dirigono verso la capitale, decisi a lanciare l’attacco finale alla decadente democrazia liberale. Il 30 ottobre il re Vittorio Emanuele III decide di conferire l’incarico a Benito Mussolini. Inizia così il lungo ventennio di dittatura fascista. La riscossa inizierà solamente nel 1943 con gli scioperi operai e con l’organizzazione della resistenza partigiana.
Ma come fu possibile che una formazione nata circa tre anni e mezzo prima arrivasse al potere senza colpo ferire? A maggior ragione dopo che il pendolo della storia, con il biennio rosso, aveva oscillato fortemente a sinistra, terrorizzando industriali e proprietari terrieri. Gli anni che vanno dalla fine della guerra (novembre 1918) alla marcia su Roma (ottobre 1922), rappresentano un periodo molto convulso della storia italiana. L’estrema instabilità governativa produce ben cinque Presidenti del Consiglio. La guerra cambia totalmente gli schemi, la vecchia classe politica ne esce frastornata, incapace di leggere la situazione. La classe operaia, i contadini, la stessa piccola borghesia (quest’ultima di fatto la base sociale del movimento fascista) reclamano un nuovo ruolo, più attivo nella politica italiana. Nascono proprio in questi anni i Fasci di Combattimento (poi Partito Nazionale Fascista), il Partito Comunista d’Italia e il Partito Popolare. Si passa appunto dall’occupazione delle fabbriche alla sconfitta aperta del movimento operaio per opera di un movimento reazionario, mai visto fino ad allora. Un fenomeno totalmente nuovo, che nemmeno il giovane Partito Comunista riesce ad analizzare sempre in maniera corretta.
Per rispondere alla domanda iniziale, partiamo dalla fine della Grande Guerra, per capire che tipo di paese esce dal conflitto.
Il mito della vittoria mutilata e l’impresa fiumana
“Se durante la guerra, vi fosse stato in Italia il forte governo attuale, il disastro non sarebbe avvenuto. Magari avessimo avuto già Mussolini allora.” (da una lettera del 1926 del generale Luigi Cadorna ad un generale tedesco della Prima guerra mondiale)[1]
Il 4 novembre 1918 termina la guerra. L’Italia, schieratasi con Inghilterra e Francia (la Russia si ritira dal conflitto dopo la rivoluzione d’Ottobre), ne esce formalmente vincitrice. Il prezzo da pagare è però altissimo. Innanzitutto in termini di vite umane: 650000 morti e 450000 mutilati. Le cose non vanno molto meglio per chi torna sano e salvo a casa. Il trauma dell’esperienza bellica e la necessità del reinserimento lavorativo sono urgenze reali, alle quali il vecchio sistema liberale non è in grado di dare una risposta. Se da un lato c’è una crescita del PSI come partito di riferimento dei lavoratori, dal lato opposto si assiste ad un rigurgito nazionalista. Da dove nasce questo sentimento? Il patto di Londra, stipulato nel 1915 tra l’Italia e le potenze dell’Intesa, prevede tra l’altro che (in caso di vittoria) Trentino, Tirolo, Venezia Giulia, Istria (con l’esclusione di Fiume) e un terzo della Dalmazia (fino a Zara) passino all’Italia. Terminato il conflitto, il presidente statunitense Wilson si oppone, non ritenendo valido il Patto segreto siglato tre anni prima. L’Italia invece richiede che anche la città di Fiume diventi italiana. A nulla serve l’abbandono delle trattative da parte del governo Orlando. Poco tempo dopo, entra in carica il governo Nitti, il quale ribadisce le richieste del suo predecessore, portando avanti nello stesso tempo una trattativa col regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Con la fine della guerra, le stesse potenze promotrici del Patto con l’Italia cominciano a mettere in discussione l’accordo. Si arriva così al trattato di Rapallo (ratificato dal governo Giolitti) che nel novembre del 1920 stabilisce l’assegnazione all’Italia di parte della Dalmazia (tra cui Zara), ma non dell’Istria e tantomeno di Fiume. La dura opposizione di Wilson alle richieste italiane crea fin da subito il terreno per la creazione del mito della “vittoria mutilata”. Il Corriere della Sera di Luigi Albertini è in prima linea in questa battaglia. Ma non è il solo. La stampa semplicemente esprime l’idea nazionalista che attecchisce soprattutto tra la piccola borghesia che ha partecipato alla guerra e che si sente ora messa da parte. Alla fine del 1918 nasce l’Associazione Nazionale Combattenti, una organizzazione a forte impronta nazionalista, che chiarisce fin dai primi mesi il proprio orientamento antiparlamentare e antibolscevico. Se nel 1919 si presenta alle elezioni in maniera indipendente sotto il nome di Partito dei Combattenti, già alla successiva tornata elettorale aderirà al Blocco Nazionale, una coalizione che comprende fascisti e liberali.
Ma la delusione per le posizioni di Wilson e degli ex alleati dell’Italia, spinge nel settembre 1919 il poeta Gabriele D’Annunzio (l’inventore dell’espressione “vittoria mutilata”) a guidare l’occupazione di Fiume, con l’obiettivo di annettere la città all’Italia. È una spedizione che il governo italiano non condivide nei metodi, ma che non può fermare. Nitti, come già visto, pensa che con la trattativa si possa ottenere lo stesso obiettivo. L’occupazione di Fiume è a tutti gli effetti un’impresa di stampo nazionalistico, pur non priva di contraddizioni, riconducibili principalmente alla figura di D’Annunzio. Verrà richiamata spesso dalla propaganda fascista, per quanto il rapporto tra D’Annunzio e il fascismo non fu mai idilliaco. La spedizione fiumana rappresenta bene la delusione di quel mondo interventista che aveva partecipato con entusiasmo alla prima guerra mondiale. È un mondo che comprende ufficiali, piccola borghesia, ed esponenti del sindacalismo rivoluzionario. Settori che, delusi dagli esiti della guerra, cercano con l’occupazione il proprio riscatto. Il governo, due mesi dopo l’occupazione, propone una trattativa ai legionari fiumani, sottoponendo loro il “Modus Vivendi”, che impegna il governo italiano ad evitare l’annessione di Fiume al territorio jugoslavo. La popolazione della città è prevalentemente italiana e appoggia le richieste del governo Nitti. D’Annunzio decide allora di indire un plebiscito, il cui risultato va nella stessa direzione e viene quindi osteggiato dai legionari. Fallite le trattative, il governo italiano gioca la carta del boicottaggio. D’Annunzio, ormai disperato, proclama nell’agosto del 1920 la Reggenza Italiana del Carnaro, basata appunto sulla carta del Carnaro: un documento scritto da Alceste De Ambris, ex esponente del sindacalismo rivoluzionario. La Carta contiene al suo interno anche dei punti decisamente progressisti (uguaglianza dei sessi, libertà di espressione, salario minimo garantito), ma rimarranno solo proclami. Il trattato di Rapallo, firmato dal governo Giolitti dà il definitivo colpo di grazia a D’Annunzio e i suoi legionari. Sul finire del 1920 il governo italiano sconfigge i ribelli, che rientrano così in Italia nel mese di gennaio 1921, ponendo così fine all’esperienza fiumana.[2]
L’occupazione di Fiume è un’esperienza tutto sommato breve. Non è nemmeno una esperienza così significativa, considerando che negli stessi mesi l’Italia è scossa dalle mobilitazioni del biennio rosso, creando al governo italiano problemi ben più grossi. È però un sintomo del clima che si respira in alcuni settori nel dopoguerra. Fin da subito, infatti, D’Annunzio cerca sponde anche in Italia. Tra i suoi sostenitori c’è infatti il direttore de “Il Popolo d’Italia” che nel frattempo ha fondato a Milano un suo movimento: l’ex socialista Benito Mussolini.
Il fascismo da movimento a partito
“Mi fate parlare? Qui, in chiesa, ci hanno battezzato. Ci hanno cresimato. Qui in chiesa ci siamo sposati. E qui ci toccherà entrare. Da quella porta, per i piedi. Il più tardi possibile, se volete. Tutti voi sapete cos’erano le crociate. Lo sapete cos’erano le crociate? La Chiesa… Persino la Chiesa, quando ce n’è stato bisogno, ha tirato fuori il bastone. Ma poi chi sono questi bolscevichi? Eh? Semiasiatici, ecco cosa sono. Come i saraceni. Mongoli, sovversivi. Che fra un poco, se continua in questa maniera, ci fanno fuori a noi tutti, e ci prendono su ogni cosa. Ho ragione o no? […] Ma noi non vogliamo la violenza, o la vendetta! Noi vogliamo l’ordine. Noi siamo i novelli crociati. E dobbiamo infondere coraggio ai nostri giovani! Loro aspettano soltanto un segno da noi! E allora diamoglielo, questo segno!” (tratto dal film “Novecento” di Bernardo Bertolucci)[3]
Benito Mussolini milita nel PSI fino allo scoppio della Grande Guerra. Rappresenta l’ala più radicale del partito, e nel 1912, dopo il congresso di Reggio Emilia, diventa direttore dell’“Avanti”. Nel giugno del 1914, alla vigilia dello scoppio della guerra, è tra i protagonisti degli scioperi durante la settimana rossa. Nel giro di poche settimane passa da essere oppositore del conflitto ad appoggiare l’intervento a fianco della Triplice Intesa, venendo così espulso dal partito. Grazie all’aiuto economico dei francesi, fonda quindi un nuovo quotidiano: “Il Popolo d’Italia”. Ed è proprio dalle colonne del suo giornale che annuncia, qualche anno dopo, la nascita di un nuovo movimento. Il 23 marzo 1919 Mussolini fonda a Milano i Fasci di Combattimento. Sono trecento le persone presenti in Piazza San Sepolcro nella sala riunione del Circolo dell’Alleanza industriale. Ma chi sono i sostenitori del movimento, e quale programma hanno? Ex soldati, futuristi, ex sindacalisti rivoluzionari, più in generale è la piccola borghesia che rappresenta l’anima di questa forza che si affaccia nella politica italiana nel primo dopoguerra. Ed è proprio il carattere piccolo borghese che ne caratterizza il programma. I fascisti si orientano fin da subito agli ufficiali dell’esercito e ai reduci, ponendosi come riferimento per chi, tornato dalla guerra, si sente escluso dalla politica del vecchio stato liberale. Più in generale, il primo fascismo si scaglia contro i “traditori della Patria”. Il nazionalismo (gli Arditi della Prima Guerra Mondiale sono tra i principali sostenitori) rappresenta uno dei punti fermi. Dobbiamo però ricordare che nel programma sono presenti anche rivendicazioni indubbiamente progressiste come il voto alle donne, la richiesta delle otto ore, il sequestro dei beni della Chiesa.[4] Proponendosi come una forza interclassista, i Fasci sembrano quindi parlare a diversi strati sociali (da notare che sotto il titolo della testata del giornale vi era la dicitura “Quotidiano dei combattenti e dei produttori”). Ma è la prima uscita pubblica che ne chiarisce l’orientamento di classe. Il 15 aprile, infatti, i fascisti armati attaccano un corteo socialista che marcia a sostegno dello sciopero generale, assaltando anche la sede del quotidiano di cui lo stesso Mussolini anni prima era stato direttore. Teresa Galli, un’operaia diciannovenne, è la prima vittima della violenza fascista.
Tuttavia, per tutto il 1919 (e anche per buona parte dell’anno successivo) l’antibolscevismo della formazione di Mussolini non attecchisce e il risultato delle elezioni del novembre 1919 è un disastro: i Fasci di Combattimento non ottengono nemmeno un deputato, rimanendo così fuori dal parlamento. Di contro i socialisti ottengono il 32% dei voti, eleggendo 156 deputati e risultando il partito più votato. Lo straordinario risultato nelle urne è l’espressione del clima rivoluzionario che si respira nel paese. Siamo infatti in pieno biennio rosso, e il vento soffia decisamente a sinistra. La Rivoluzione d’Ottobre è un esempio per i lavoratori di tutto il mondo,5 e l’Italia non fa eccezione. “Fare come in Russia” è il motto che guida i lavoratori nelle fabbriche e i contadini nelle campagne. La direzione massimalista del PSI non perde occasione per omaggiare i bolscevichi e per proclamare la necessità della rivoluzione anche in Italia, ma non riesce ad andare oltre a vaghi richiami ad essa, rivelandosi totalmente incapace di guidare la classe operaia verso la conquista del potere. Lo riconosce, a suo modo, anche Pietro Nenni, storico segretario del PSI tra gli anni Quaranta e Sessanta:
“Vi fu nel primo dopoguerra una situazione che era obiettivamente e soggettivamente una situazione rivoluzionaria. Mancò invece un obiettivo rivoluzionario che fosse conforme alle forze assai ingenti rappresentate dal movimento socialista. Ma mancò proprio perché dall’analisi che era stata fatta della situazione, la tendenza prevalente fu quella di considerare che si poteva attuare in Italia una rivoluzione del tipo di quella che era stata realizzata in Russia.”[6]
I momenti più alti dell’esperienza rivoluzionaria sono due: lo “sciopero delle lancette” nell’aprile del 1920 e soprattutto l’occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920. La direzione socialista non coglie però l’occasione, preparando così il terreno per la successiva reazione padronale. Il gruppo dell’“Ordine Nuovo” di Gramsci e il gruppo di Bordiga (Il cui giornale si chiama “Il Soviet”) decidono quindi di abbandonare il partito, fondando nel gennaio 1921 il Partito Comunista d’Italia.[7]
Negli stessi mesi i fascisti si distinguono per assalti a Camere del Lavoro, devastazioni di sedi dell’“Avanti”, attacchi a manifestazioni operaie. Abbandonate in fretta le parole d’ordine più progressiste, le camicie nere si distinguono sempre più come il braccio armato del padronato. Passata la paura della rivoluzione, industriali e agrari si riorganizzano, pronti a riprendersi tutto con gli interessi.
“Gli industriali ebbero un ruolo decisivo nell’avvento al potere del fascismo. Le tensioni sociali del cosiddetto biennio rosso contribuirono a un graduale distacco di diversi settori del padronato dai meccanismi di mediazione dello stato liberale, ritenuto incapace di difendere la proprietà privata e gli interessi della borghesia. I governi, infatti, non riuscivano a tenere a freno una conflittualità sociale animata da propositi rivoluzionari e da rivendicazioni sempre meno contenibili nella dialettica sindacale: una scioperomania che tra il 1919 e il 1920 portò alla perdita di più di 35 milioni di giornate di lavoro, e nel settembre del 1920 culminò nell’occupazione delle fabbriche. La rifondazione della Confindustria nel 1919 doveva dunque servire alla difesa degli interessi di categoria, prima di tutto di fronte alle pressioni del movimento operaio. […]
E’ vero che i finanziamenti più massicci ai fascisti – che ne accrebbero a dismisura il potere politico – provennero dagli agrari della Val Padana, intenzionati a distruggere le leghe bracciantili e il potere dei socialisti nelle campagne. […]
Ma, soprattutto dopo lo shock dell’occupazione delle fabbriche, larghi settori del padronato sostennero largamente le camicie nere per opporsi agli scioperi, colpire le organizzazioni di classe e vendicarsi dell’insorgenza socialista.”[8]
È il novembre del 1920 quando i fascisti assaltano la manifestazione socialista a Bologna, organizzata per festeggiare la vittoria alle elezioni amministrative. I morti sono praticamente quasi tutti socialisti, e la giunta comunale viene commissariata senza nemmeno riuscire ad insediarsi. È la prima importante vittoria del fascismo. [9] Il commento di Gramsci è piuttosto significativo:
“Lo Stato italiano cade in pezzi appunto perché i poteri locali non funzionano secondo le parole d’ordine che partono dal centro governativo: pullulano invece i gruppi armati locali, che si sostituiscono all’organizzazione armata ufficiale, ubbidiscono a interessi locali, svolgono una lotta da partigiani contro gli avversari locali. Il fascismo è l’espressione di questo corrompersi dei poteri statali. D’Annunzio lotta contro Giolitti perché esiste il fascismo bolognese, milanese, torinese, fiorentino, ecc.; Giolitti è impotente contro D’Annunzio perché a Bologna, a Milano, a Torino, a Firenze i suoi funzionari sostengono il fascismo, armano i fascisti, si confondono coi fascisti; perché in tutti questi centri il fascismo si confonde con la gerarchia militare, perché in tutti questi centri il potere giudiziario lascia impunito il fascismo. Il fascismo, come fenomeno nazionale, non può fondare un suo Stato, non può organizzarsi in potere centrale, perché si confonde già con lo Stato, perché trova già la sua centralizzazione nell’attuale governo di Giolitti; il fascismo, come fenomeno dannunziano, è una contraddizione, non è un’antitesi, è una faccia dello stesso governo giolittiano, non ha niente di rivoluzionario, perché non è capace di superare dialetticamente il suo apparente avversario, perché non è capace di sostituirlo. Lo Stato italiano si dibatte in questa sua crisi morbosa, di intimo disfacimento; può risultare da essa solo nuova barbarie, nuovo caos, nuova anarchia, nuova reazione. Mai, come in questo momento, lo Stato italiano è stato una cosa risibile, una cosa buffa: ma purtroppo, nella vita degli Stati, essere buffi e ridicoli significa impunità per i violenti e nessuna sicurezza per le persone, significa sopruso, angheria, prepotenza, significa reazione contro i lavoratori.”[10]
La rivoluzione è stata sconfitta, e la violenza fascista è sempre più generalizzata. Non si tratta più di alcuni episodi (come, ad esempio, il già citato assalto all’“Avanti” nel 1919, o l’incendio del “Narodni dom” – la Casa del Popolo triestina – nel luglio del 1920). Le devastazioni dei Fasci di Combattimento si estendono al nord, anche in città come Torino o Milano. Si arriva così alle elezioni del maggio 1921, in cui le camicie nere si presentano nella lista del Blocco Nazionale, eleggendo 37 deputati. Il PSI è ancora il primo partito, ma perde oltre trenta deputati. Il neonato Partito Comunista ottiene 15 seggi, entrando così in Parlamento. Nel luglio dello stesso anno nasce il governo guidato da Bonomi, esponente del Partito Socialista Riformista Italiano (nato nel 1912, in seguito all’espulsione dal PSI degli esponenti dell’ala destra), sostenuto sempre da liberali e popolari. È proprio in queste settimane che Antonio Gramsci si sofferma sul ruolo giocato dalla piccola borghesia nella crescita del fascismo:
“Questa attività della piccola borghesia, divenuta ufficialmente “il fascismo”, non è senza conseguenza per la compagine dello Stato. Dopo aver corrotto e rovinato l’istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l’esercito, la polizia, la magistratura. […]
La piccola borghesia, anche in questa ultima incarnazione politica del “fascismo”, si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver rovinato il Parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre più larga scala, la violenza privata all’ “autorità” della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre più larghi strati della popolazione.”[11]
Il fascismo fin da subito si era orientato alla piccola borghesia, soprattutto in chiave nazionalista e antibolscevica. Il salto di qualità avviene però successivamente quando la piccola borghesia, con il sostegno alle camicie nere, contribuisce a salvare il capitalismo dal “pericolo rosso”. Stiamo parlando di una classe storicamente instabile, che non può che schierarsi a sostegno di una delle classi in lotta: la borghesia o il proletariato. Una classe totalmente incapace di giocare un ruolo indipendente: all’interno del sistema produttivo capitalista, infatti, essa non si colloca politicamente ed economicamente né tra gli sfruttati da cui ricavare surplus, né tra i grandi industriali in grado di mettere a frutto la ricchezza estratta del lavoro salariato. In questo senso, nessuna politica capitalista può realmente basarsi sugli interessi specifici della piccola borghesia, ma solo fare leva propagandistica sulle sue rivendicazioni.
La violenza fascista tocca però vette che la stessa borghesia, almeno dal punto di vista formale, non può tollerare. Da qui le pressioni per ratificare un Patto di pacificazione tra socialisti e fascisti nell’agosto del 1921, come se il movimento operaio fosse corresponsabile di una guerra unilaterale che gli veniva mossa contro. Mussolini accetta il Patto per paura che le azioni squadristiche sfuggano dal suo controllo. Il PCd’I, a differenza del PSI, si schiera contro, criticando gli ex compagni di partito.[12]Il Patto rimane naturalmente lettera morta e le violenze fasciste continuano, anche perché diverse sezioni dei Fasci si schierano contro la firma.
È infatti questo l’oggetto del contendere al Terzo Congresso nazionale dei Fasci di Combattimento, che si svolge nel novembre 1921. Diverse sezioni locali contrastano l’idea del Patto, sostenendo la linea “rivoluzionaria” del movimento. Mussolini invece, pur non rinnegando affatto le aggressioni e le devastazioni, sembra essere più propenso a sostenere una sorta di “fascismo istituzionale”. Su questo punto va in minoranza, riuscendo però ad ottenere una vittoria politica ben più importante, la trasformazione del movimento in partito. Il 9 novembre 1921 nasce il Partito Nazionale Fascista. Sono passati due anni e mezzo dalla fondazione in Piazza san Sepolcro a Milano, quando poche centinaia di persone dettero vita al movimento fascista. Il partito oramai è una forza che supera ampiamente i 300000 iscritti ed è presente in parlamento. Tra il 1920 e il 1921 cadono 300 persone per mano fascista, di cui solamente 105 nel mese che precede le elezioni politiche del maggio 1921. Nello stesso anno vengono distrutte 59 Case del Popolo, 197 sedi di cooperative, 83 edifici delle leghe, 141 sezioni del Partito Socialista.[13] Il biennio rosso è stato sconfitto e il vento della rivoluzione non soffia più. Il fascismo sembra avanzare senza battute d’arresto, grazie anche all’inettitudine della borghesia liberale. L’ennesima crisi parlamentare porta ad un nuovo esecutivo nel febbraio 1922: il nuovo Presidente del Consiglio è il giolittiano Luigi Facta. Il movimento operaio è ormai in ritirata, ma non è ancora sconfitto. Tenta quindi di resistere alle camicie nere.
L’Ultima resistenza
“Morte ai fascisti, morte a chi li paga! Donne, operai, ragazze e proletari, reduci di guerra, gente d’ogni età…Popolo di Parma, avanti! Questa è la tua guerra! Morte ai fascisti, morte a chi li paga! Le mura di ogni casa, i sassi delle strade, le tegole dei tetti, le panche per pregar…Tutto è diventato un’arma in mano ai proletari!” (tratto dall’opera teatrale “Parma 1922: le barricate”)[14]
Cresce nel frattempo in una parte della borghesia l’idea di “normalizzare” il fascismo. L’idea è quella di spogliare il partito degli aspetti più brutali, con l’obiettivo però di far accettare alle camicie nere, chiaramente schierate a destra, la logica parlamentare. Uno dei sostenitori di questa posizione è Giovanni Giolitti. Ma non è l’unico. La borghesia italiana è sempre più fragile, e l’instabilità governativa ne è l’espressione. Il governo Facta è l’ennesimo “ultimo tentativo” per salvare il vecchio sistema liberale, minacciato non più da operai e contadini, ma dai fascisti, sostenuti dalla piccola borghesia, e foraggiati da industriali e agrari. Gli squadristi hanno inoltre un importante sostegno nelle forze armate, le quali non sono certo neutrali negli scontri tra movimento operaio e contadino da un lato e camicie nere dall’altro. In più di un’occasione sono i prefetti a incoraggiare, con il loro comportamento, la benevolenza nei confronti della reazione. Lo stato borghese è ormai allo sbando, incapace di reagire. Si dirige lentamente verso un destino che sembra ormai scritto, non ha la forza, né la voglia di sbarrare il passo ai fascisti. Si tenta anche il coinvolgimento di D’Annunzio, per ricondurre Mussolini a più miti consigli.
E il movimento sindacale e dei partiti di sinistra? Hanno ancora energie per lottare? Nasce nel febbraio 1922, per iniziativa del Sindacato Ferrovieri (autonomo dalla CGL), l’Alleanza del Lavoro. Alla prima riunione vi partecipano anche CGL, USI, UIL e Federazione Nazionale dei Porti. Parte da qui un appello alle forze proletarie per lottare contro la reazione. Dal punto di vista sindacale, la composizione non potrebbe essere più eterogenea: dai repubblicani fino agli anarchici. Non va meglio dal punto di vista politico. Nel PSI, a distanza di mesi dalla scissione comunista, rimangono le divisioni tra massimalisti e riformisti, con i secondi orientati nel sostegno ad un esecutivo antifascista con i popolari e altre forze borghesi. Il governo Facta è però troppo spostato a destra, per ottenere la fiducia dei riformisti di Turati. Quanto ai comunisti, aderiranno all’Alleanza solo successivamente, per le pressioni del Comintern. La segreteria di Bordiga risente ancora del dibattito di Livorno. La linea di Gramsci (relatore al Congresso di Roma del partito nel marzo 1922) e degli ordinovisti è quella di criticare l’impostazione burocratica dell’Alleanza da un lato, sostenendo dall’altro la creazione di comitati unitari, eletti dai lavoratori, a sostegno della stessa. Formalmente il partito è per l’unità sindacale, ma non quella politica, lasciando così l’Alleanza saldamente in mano ai riformisti. Per mesi, la richiesta di sciopero generale da parte del PCd’I resta inascoltata.[15]
A luglio il governo Facta entra in crisi. Turati e l’ala riformista propongono un accordo ai popolari:
“Ciò che oggi è in questione, non è affatto il socialismo, è la vita civile, ed ecco perchè, onorevole Gronchi, i nostri voti possono confondersi coi vostri, senza che questo voglia dire ripudio o rinnegamento, né della nostra, né della vostra fisionomia.”[16]
E’ la linea già tentata pochi mesi prima: i riformisti hanno a cuore la salvezza dello stato borghese, ormai in decadimento, convinti che sia l’ultimo baluardo contro il fascismo. Pochi mesi dopo verranno espulsi dal PSI, andando a formare il Partito Socialista Unitario, il cui segretario sarà Giacomo Matteotti. Il tentativo fallisce, Facta resta Presidente del Consiglio, con un rimpasto di governo. Rimane tra le varie forze borghesi una contrarietà di fondo ai socialisti, seppur nella loro versione più moderata. Non solo Giolitti, ma anche i popolari aprono all’idea del coinvolgimento dei fascisti al governo, con l’obiettivo di “istituzionalizzarli”. La conferma di Facta, il cui governo entra in carica il primo agosto, lascia immutate le cose.
Negli stessi giorni, a fronte dell’incremento delle violenze fasciste, che arrivano fino alla Puglia, puntando successivamente verso il triangolo industriale Milano – Torino – Genova, si arriva allo sciopero generale in Piemonte il 18 e in Lombardia il 19 luglio. Gli scioperi vengono però stroncati dall’ Alleanza del lavoro e dall’ala destra del PSI (quest’ultima impedisce l’estensione alla Liguria). Nel Partito Comunista si aprono delle differenziazioni tra il settarismo dogmatico di Bordiga [17] e il gruppo degli ordinovisti che, trovandosi a Torino (Gramsci è a Mosca in quei giorni) in un ambiente particolarmente combattivo, spingono per lo sciopero generale nazionale. Si arriva così allo sciopero generale il 31 luglio, proclamato dall’Alleanza. Sono i riformisti a sostenere l’idea dello “sciopero legalitario”, dopo aver sabotato per settimane l’idea di uno sciopero generale. È uno sciopero ormai tardivo, che dopo i primi giorni si sgonfia. Come riconosce Pietro Nenni, allora redattore dell’“Avanti”:
“Lo sciopero che Filippo Turati definì legalitario della fine di luglio del 1922, fu in verità l’ultima grande battaglia combattuta dalle organizzazioni sindacali e dalle organizzazioni politiche per rovesciare il corso della politica quale andava svolgendosi nel nostro paese. Dal punto di vista dell’astensione dal lavoro, lo sciopero ebbe un successo straordinario. L’astensione dal lavoro fu quasi completa, ma i centri cittadini rimasero nelle mani dello squadrismo fascista. E il terzo giorno dello sciopero, lo sciopero era virtualmente svuotato del suo significato e delle sue possibilità di sviluppo, in quanto piu che mai lo squadrismo fascista era padrone della piazza.”[18]
I fascisti intervengono direttamente per sabotare lo sciopero, con l’accondiscendenza del governo, che lascia che le camicie nere ristabiliscano l’ordine. In alcune città i lavoratori si battono energicamente, ma la pavidità dei propri dirigenti, condanna questo sciopero al fallimento. Sembra un tragico scherzo del destino, ma l’idea turatiana di utilizzare lo sciopero come arma di pressione sul governo e sul parlamento [19] , rivela la bancarotta del riformismo: proprio quello stesso governo su cui i riformisti volevano fare pressione, utilizzerà i fascisti per reprimere la mobilitazione. E’ la sconfitta definitiva, che spiana la strada al Partito Fascista. Poche settimane dopo sul “Popolo d’Italia” viene pubblicato un articolo in cui il partito chiarisce il programma economico: l’impronta è di natura chiaramente liberista, con la proposta di tagli al bilancio pubblico, privatizzazioni, abolizione degli organi statali inutili.[20]
C’è però una città che riesce a resistere ai fascisti, ed è Parma. È qui che la determinazione degli Arditi del Popolo mette in fuga le camicie nere guidate da Balbo. Gli Arditi del Popolo nascono nell’estate del 1921 in varie città. Provengono dalle fila dell’arditismo interventista nel corso della prima guerra mondiale, creando una particolare declinazione dell’arditismo a sinistra. L’estrazione sociale è tendenzialmente piccolo – borghese, cosa che spinge i comunisti a una posizione settaria nei loro confronti. L’approccio del PCd’I bordighiano è di fatto un boicottaggio, in quanto, come scrive Paolo Spriano:
“Le ragioni addotte dal comunicato per giustificare l’ostracismo al movimento sono: la posizione di principio secondo cui i comunisti debbono inquadrarsi soltanto in formazioni militari a base di partito e la differenza dei programmi. Il fine degli arditi del popolo sarebbe semplicemente quello di ristabilire l’ordine e la normalità della vita sociale mentre la lotta proletaria va rivolta alla lotta rivoluzionaria.”[21]
Dal canto suo l’“Ordine Nuovo” esprime comunque una certa simpatia nei confronti del nuovo movimento:
“Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del Popolo? Tutt’altro: essi aspirano all’armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia e di presidiare l’organizzazione e lo sviluppo delle nuove forze produttive generate dal capitalismo.
I comunisti sono anche del parere che per impegnare una lotta non bisogna neppure aspettare che la vittoria sia garantita per atto notarile. Spesse volte nella storia i popoli si sono trovati al bivio: o languire giorno per giorno di inedia, di esaurimento, seminando la propria strada di pochi morti al giorno, che diventano però una folla nelle settimane, nei mesi, negli anni; oppure arrischiare l’alea di morire combattendo in un supremo sforzo di energia, ma anche di vincere, di arrestare d’un colpo il processo dissolutivo, per iniziare l’opera di riorganizzazione e di sviluppo che almeno assicurerà alle generazioni venture un po’ più di tranquillità e di benessere. E si sono salvati quei popoli che hanno avuto fede in se stessi e nei propri destini e hanno affrontato la lotta, audacemente.”[22]
La posizione ufficiale del partito è in ogni caso quella sostenuta da Bordiga e dall’esecutivo. Posizione che viene criticata anche dall’Internazionale. Tuttavia, gli Arditi del Popolo crescono, anche grazie all’apporto di militanti socialisti e comunisti, che proletarizzano progressivamente l’organizzazione.
Ed è proprio a Parma che gli Arditi del Popolo – alla cui testa vi è il socialista Guido Picelli – mettono in fuga i fascisti nell’agosto 1922. Di fronte alla decisione dell’Alleanza del Lavoro di cessare lo sciopero, la popolazione parmense si organizza per fronteggiare 20000 fascisti armati, comandati da Italo Balbo. Per il ras ferrarese, Parma rappresenta un simbolo dell’antifascismo, motivo per cui è deciso ad andare fino in fondo. Nonostante la forza fascista, gli Arditi del Popolo sono ancora più determinati. Le barricate resistono e la popolazione parmense contrattacca, costringendo i fascisti alla ritirata. Balbo accetta la sconfitta, e ordina alle camicie nere la smobilitazione nella mattinata del 6 agosto. L’antifascismo parmense ha vinto, dimostrando che gli Arditi del Popolo, i lavoratori e i contadini parmensi credono realmente alla possibilità di respingere il fascismo. Al contrario del riformisti che guidano l’ Alleanza.
Parma però rimane un caso isolato. A Milano il prefetto filofascista commissaria la giunta del socialista Filippetti, in quanto lo stesso sindaco appoggia lo sciopero generale dei dipendenti comunali. Cade anche Cremona. All’inizio di settembre, i fascisti conquistano due città chiave, da cui poche settimane dopo partirà la marcia su Roma: Terni e Civitavecchia. A Terni, i dirigenti delle acciaierie (chiuse da luglio) dopo aver promesso la riapertura per il 10 settembre, lasciano le acciaierie chiuse. Lo stesso giorno i fascisti (in accordo coi dirigenti delle acciaierie) entrano in città e la mettono a ferro e fuoco. Il 4 settembre è invece la volta di Civitavecchia. Le camicie nere, costrette a ritirarsi poche settimane prima a causa della resistenza popolare (in particolare dei lavoratori del porto), si vendicano e riescono a prendersi la città. L’Alleanza del Lavoro, sconfitto lo sciopero, si sfalda. Nata su basi fragilissime, si dissolve nel giro di qualche settimana. Finisce l’estate, il fascismo ha ormai la strada spianata e si prepara a prendere il potere.
L’ultimo atto: le camicie nere conquistano il governo
“Da soli non ce l’avremmo mai fatta. Avevamo bisogno di alleati, di amici. E li abbiamo trovati: gli industriali milanesi, i cattolici, l’esercito il re, la burocrazia, la stampa. La rivoluzione fascista è appena agli inizi. Per il momento io sono il capo del governo, e i fascisti occupano i gangli più delicati dello stato. La più completa, la più totale fascistizzazione dell’Italia…ormai è solo questione di tempo.” (tratto dallo sceneggiato Rai “Tecnica di un colpo di stato. La marcia su Roma”)[23]
Il Partito Nazionale Fascista ha ben chiara la situazione. La discussione, più che sul come, verte ormai sul quando. Sia chiaro, Mussolini si terrà aperte tutte le porte fino all’ultimo, ma è ormai evidente che il partito nel suo insieme, è ben cosciente che nessuno abbia la forza o la volontà di opporsi ad esso. Anche gli esponenti politici che non aderiscono al fascismo hanno come unico obiettivo la riduzione del danno: in un modo o nell’altro, i fascisti devono essere coinvolti al governo. Il 17 settembre Mussolini dichiara:
“Quello che ci separa dalla democrazia non è il programma, poiché ormai tutti i programmi si rassomigliano, ma è la nostra concezione dello sviluppo futuro della storia, dalla qual concezione discende Ia nostra mentalità e i[ nostro metodo… Noi siamo sempre più convinti che il mondo va a destra, cioè verso concetti e istituzioni di destra, soprattutto nel segno dell’anti-socialismo…Noi siamo sempre più convinti che occorre, per salvarci, ristabilire un ordine, anche attraverso la più inverosimile reazione… La democrazia ha della vita una concezione politica, il Fascismo ne ha una prevalentemente guerriera. La massa è gregge, e come gregge è in balìa di istinti e di impulsi primordiali. È preda di un dinamismo abulico, frammentario, incoerente. E’ materia, insomma. La massa non ha domani. Bisogna, dunque abbattere dagli altari eretti di dèmos, “Sua Santità la Massa. Il che non significa che non si debba curare il suo benessere. -Anzi! Si potrebbe a tal proposito accertare l’affermazione di Nietzsche, il quale chiedeva che si desse alla massa tutto il benessere possibile, perché non turbasse coi suoi lamenti e tumulti le manifestazioni più alte – quelle ascendenti dello spirito.”[24]
È un discorso che, pur non facendo accenno ad alcuna marcia, certifica la forza del fascismo. Mussolini pronuncia queste parole anche perchè le camicie nere agiscono indisturbate, avendo ormai la simpatia e la protezione delle forze dell’ordine e delle istituzioni. Pochi giorni dopo cade anche la pregiudiziale repubblicana, uno dei punti cardine del primissimo movimento fascista. Il governo Facta naviga a vista. Ancora il 24 settembre, si organizza una celebrazione per il trentennale dell’attività parlamentare del capo del governo, al grido di “Viva il Re!”. Ma tutti ormai vivono alla giornata, attendendo l’ora della caduta. Tutti, tranne i fascisti naturalmente, che si preparano all’ora X. Il 16 ottobre Mussolini riunisce Bianchi, Balbo, De Vecchi e De Bono. Il capo del fascismo ha tergiversato fino ad ora, a volte annunciando, a volte smentendo, l’eventualità di una marcia su Roma. Ma, pur non chiudendo le porte ad una soluzione parlamentare, si schiera decisamente per la Marcia. Con lui Bianchi e Balbo. De Bono e De Vecchi, propendono invece per una soluzione conservatrice. Nel suo libro “Nascita e avvento del fascismo” Angelo Tasca riporta le annotazioni di Italo Balbo:
“Michele Bianchi appoggia la mia tesi, aggiungendo stringenti argomenti di ordine politico. Mussolini si dichiara d’accordo con noi e la sua opinione trascina senza alcuna ulteriore resistenza quella di De Bono e di De Vecchi. Il Duce conclude questo rapido esame affermando che non si può decidere se l’insurrezione debba essere immediata, ma ritiene che si possa e si debba iniziare subito, qualora l’occasione si presenti: propone di rinviare la precisa designazione del giorno dell’atto insurrezionale dopo la rassegna delle forze fasciste che si terrà a Napoli il 24 ottobre. …Si passa ad esaminare la disciplina e la responsabilità dell’azione. Mussolini spiega che il Partito deve cedere i poteri a un Quadrumvirato composto dei tre Comandanti generali – De Bono, De Vecchi e Balbo – e dal segretario del partito, Michele Bianchi. Nel momento in cui starà per incominciare l’azione militare, tutte le gerarchie politiche scompariranno, sia quelle nazionali, sia quelle locali. Il Comando militare subentrerà con pieni poteri.”[25]
È il 24 ottobre quando a Napoli i fascisti si riuniscono al Teatro San Carlo. Il Duce entra in camicia nera, accolto da settemila persone festanti che cantano “Giovinezza”. Sfilano poi in piazza migliaia di fascisti. Mussolini dal palco annuncia ormai che si tratta di giorni, o forse addirittura di ore. Il piano viene messo a punto in serata, all’Hotel Vesuvio. Nello stesso momento in cui Facta telegrafa al Re la sua convinzione che non vi sarà alcuna Marcia, Mussolini decide che a cavallo della mezzanotte tra il 26 e il 27 tutti i poteri passino al Quadrumvirato Balbo – Bianchi – De Bono – De Vecchi. La partenza degli squadristi per Roma è fissata per la mattina del 28. I fascisti però, ormai non fanno più mistero delle proprie intenzioni e, tramite le parole del segretario Bianchi, dichiarano che l’unica soluzione possibile è la consegna del potere a Mussolini. Nel giro di 48 ore Facta cambia idea e convoca Vittorio Emanuele a Roma, il quale arriva la sera del 27. L’insurrezione fascista però inizia in anticipo: a Pisa viene occupato il telegrafo, a Cremona viene attaccata la Questura e a Foggia occupata la stazione e la centrale elettrica. Le occupazioni proseguono colpendo un po’ tutto il Paese. In serata Facta illustra al Re la decisione della proclamazione dello stato d’assedio per la tarda mattinata del 28. Tuttavia, la mattina dopo Vittorio Emanuele III decide di non firmare. Il repentino cambio di decisione del sovrano indebolisce le azioni dei miltari (comandati dal generale Pugliese) rimasti fedeli al governo. Quelle squadre fasciste che avevano trovato difficoltà nel convergere su Roma, si trovano ormai la strada spianata, e riescono a raggiungere nelle ore successive gli altri squadristi che si trovano già nella capitale. È il segnale che ormai la Marcia è realtà, e i fascisti stanno conquistando Roma, senza più alcuna resistenza. Si cerca comunque di coinvolgere il Duce, cercando allo stesso tempo altre soluzioni per risolvere la crisi, pur coinvolgendo inevitabilmente i fascisti nel nuovo governo. Mussolini però è irremovibile e, rientrato nel frattempo a Milano, la sera del 28 si rifiuta di scendere a Roma. La mattina seguente scrive:
“La vittoria si delinea già vastissima tra il consenso quasi unanime della Nazione. Ma la vittoria non può essere mutilata da combinazioni dell’ultima ora. Per arrivare a una transazione Salandra non valeva la pena di mobilitare. Il Governo dev’essere nettamente fascista.”[26]
Accetta di scendere solamente quando il Re esplicita la volontà di nominarlo Primo Ministro. La mattina del 30 ottobre è a Roma e accetta l’incarico conferitogli da Vittorio Emanuele in persona. Il giorno successivo, per la prima volta nelle vesti di Presidente del Consiglio, assiste alla sfilata delle camicie nere, atto simbolico per celebrare la vittoria del fascismo. Il primo novembre 1922 nasce ufficialmente il primo governo Mussolini. L’impronta del governo è nettamente fascista, tuttavia vi partecipano anche liberali di destra e popolari. Seguirà una forte repressione del movimento sindacale, la soppressione di ogni tipo di libertà, le leggi razziali, e infine la guerra. Mussolini rimarrà in carica fino al 25 luglio 1943.
Conclusioni
Con la nascita del primo governo Mussolini, si chiude il nostro racconto. Sono passati 4 anni dalla fine della guerra (4 novembre 1918). A quel tempo il movimento fascista non esiste nemmeno, e il futuro Duce non è altro che il Direttore del “Popolo d’Italia”.
Si è discusso molto sulle responsabilità di Vittorio Emanuele nell’avvento del fascismo. La pavidità del sovrano è incontestabile. Così come il marciume della sua dinastia. Il rifiuto di firmare lo stato d’assedio, consegnando così il governo nelle mani di Mussolini, rappresenta una macchia indelebile sulla storia dei Savoia. È necessario però chiedersi se una eventuale vittoria dell’esercito avrebbe potuto realmente frenare un fascismo che aveva definitivamente domato il movimento operaio, e che godeva del sostegno degli industriali, degli agrari, e di una parte importante del mondo politico. Persino l’accettazione dell’idea (da parte di membri della classe politica) del coinvolgimento dei fascisti al governo, dimostra la forza politica dello squadrismo. La storia non si fa con i se e con i ma, ma è indubbio che già col fallimento dello sciopero legalitario, la vittoria delle camicie nere diviene una possibilità più che concreta.
Non intendiamo qui entrare nella storia dello sviluppo del regime, a cui andrebbe dedicato un articolo a parte.[27] Vogliamo però sottolineare un aspetto per noi centrale. Esiste nella stampa e nella storiografia borghese la tendenza a dipingere qualsiasi governo reazionario come “illiberale”, creando spesso molta confusione. In questo calderone finisce anche l’esperienza fascista (e quella nazista). È corretto individuare tra i nemici del fascismo la vecchia classe politica liberale. Quello però che ci preme sottolineare qui, è che il fascismo fu in ultima analisi un regime antioperaio. Lo squadrismo intervenne per salvare il capitalismo dalla crisi in cui era caduto. Per fare questo era necessario sconfiggere il movimento operaio e contadino protagonista del biennio rosso. Fu così che il fascismo mobilitò la propria base, quella piccola borghesia che si trovava schiacciata tra il grande capitale e il proletariato. Ex ufficiali dell’esercito, piccoli proprietari, professionisti: furono queste categorie che lo squadrismo arruolò nelle proprie fila in funzione antisocialista e anticomunista. Fu il livore tipico di una classe incapace di giocare un ruolo indipendente ad aprire le strada per la rivincita di grandi capitalisti e proprietari terrieri. La grande borghesia ringraziò finanziando lautamente lo squadrismo, esultando per la vittoria finale delle camicie nere, percepite come i veri salvatori della patria.
“Dalle pagine dell’Economist, Luigi Einaudi, celebrato come paladino dell’antifascismo liberale e, nel 1948, primo Presidente della Repubblica, accolse con entusiasmo la svolta autoritaria. ‘Mai un potere tanto assoluto fu affidato da un Parlamento all’esecutivo […] La rinuncia del Parlamento a tutti i suoi poteri per un periodo così lungo è stata accolta con generale esultanza dal pubblico italiano. Gli italiani erano stanchi di parole ed esecutivi deboli’, scrisse il 2 dicembre 1922. Un mese prima, all’alba della Marcia, dichiarava: ‘L’Italia ha bisogno di un uomo al comando che sappia dire No a ogni richiesta di nuova spesa’ (Economist 28 ottobre 1922).”[28]
Non riteniamo necessario commentare ulteriormente le parole di Luigi Einaudi. Ci limitiamo solamente a rilevare come il governo fascista si dimostrò subito abile nel servire gli interessi della classe borghese, ben rappresentata da elementi come lui: nel 1923 vennero licenziati 65000 dipendenti pubblici e venne abolita la tradizionale festa del Primo Maggio. Con la “Carta del Lavoro” del 1927 vennero istituite le corporazioni, con lo scopo di abolire il conflitto di classe (a vantaggio naturalmente dei capitalisti). Ci vorranno anni, ma il conflitto di classe si manifesterà con vigore durante gli scioperi del marzo 1943, che apriranno la strada alla lotta antifascista e alla Resistenza partigiana.
Sono passati cento anni da quel 28 ottobre. Pensiamo che lo studio di quella esperienza rimanga fondamentale per capire i processi ed evitare certi errori. Lo stesso Partito Comunista, a causa della sua inesperienza e del suo settarismo, non colse la portata dell’evento. Come ricorda Umberto Terracini:
“Nè io, né gli altri compagni che collaboravano con me al centro del partito, ebbimo la sensazione, o ci formammo l’idea che la Marcia su Roma rappresentasse una svolta radicale nella politica della grande borghesia capitalistica del nostro paese.”[29]
Abbiamo un vantaggio rispetto ai compagni di allora. La dittatura fascista c’è già stata. Il fascismo ha vinto, ma poi è stato sconfitto. Per rafforzare la battaglia antifascista, oggi dobbiamo partire da qui. Certo, abbiamo appena visto la vittoria elettorale di un partito che, pur non essendo classicamente fascista, è chiaramente erede di quella tradizione. Questo risultato potrebbe anche spingerci verso la demoralizzazione. Sappiamo però che lottare contro il fascismo, significa, in ultima analisi, lottare contro il capitalismo. Hanno vinto nelle urne, è vero. Ma non ci hanno ancora battuto in campo aperto.
[1]https://www.youtube.com/watch?v=Pg4G__4DDzI&t=3866s al minuto 01:03:28
[2]https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/12/Limpresa-di-Fiume-d3372e4a-efca-49ab-b6dc-4ed0f93aec91.html
[3]https://www.youtube.com/watch?v=RNBb5sX6XrA
[4]https://www.anpi.it/storia/88/manifesto-dei-fasci-italiani-di-combattimento
[5] Per approfondire quanto accade, negli stessi anni, in Germania, vi rimandiamo alla nostra introduzione a “Che cos’è il nazionalsocialismo” di Lev Trotsky https://marxpedia.org/introduzione-a-che-cose-il-nazionalsocialismo-di-lev-trotsky/ e al successivo testo dell’autore https://marxpedia.org/che-cose-il-nazionalsocialismo/
[6]https://www.youtube.com/watch?v=nmm5UsNukSQ&t=1470s al minuto 23:30
[7]Per approfondire lo studio del “biennio rosso”, vi invitiamo a consultare il nostro percorso ad esso dedicato https://marxpedia.org/teoria/percorsi-di-lettura/1919-1920-il-biennio-rosso/ e l’articolo scritto per l’anniversario della nascita del PCd’I https://marxpedia.org/le-condizioni-della-scissione-di-livorno-centanni-dopo/
[8]https://jacobinitalia.it/il-regime-degli-industriali/
[9]https://www.youtube.com/watch?v=MtfGEWZ4-QM&t=2502s al minuto 45:42
[10]https://marxpedia.org/la-forza-dello-stato/
[11]https://www.marxists.org/italiano/gramsci/21/popoloscimmie.htm
[12]https://marxpedia.org/il-carnefice-e-la-vittima/
[13]https://www.repubblica.it/venerdi/2022/10/06/news/la_marcia_su_roma_e_litalia_di_oggi_intervista_ezio_mauro-367812074/
[14]Collettivo Teatrale La Comune Silvano Piccardi “Parma 1922: Le Barricate!” Sapere edizioni, pag.85
[15]Paolo Spriano “Storia del Partito Comunista Italiano” Da Bordiga a Gramsci parte prima, pagg. 197 – 199
[16]https://www.youtube.com/watch?v=nmm5UsNukSQ al minuto 40:58
[17]Cfr. Paolo Spriano op.cit., pag. 205
[18]https://www.youtube.com/watch?v=nmm5UsNukSQ al minuto 42:45
[19]Cfr. Paolo Spriano op. cit., pag. 209
[20]https://www.raiplay.it/video/2020/10/1919-1922-Cento-anni-dopo-p6-La-marcia-su-Roma-a572a80a-54af-4070-8125-330760b46149.html al minuto 05:00
[21]Paolo Spriano, op. cit. , pag.146
[22]https://www.marxists.org/italiano/gramsci/21/arditi.htm
[23]https://www.youtube.com/watch?v=4Bzaxu6QOx0&t=2563s al minuto 42:00
[24]https://marxpedia.org/capitolo-10-la-marcia-su-roma-prima-parte/
[25]https://marxpedia.org/capitolo-10-la-marcia-su-roma-seconda-parte/
[26]https://github.com/ComeDAutunno/Prime_Pagine_Giornali/blob/main/popoloditalia_29ottobre1922.jpg
[27]Per chi volesse approfondire il tema, consigliamo il libro di Francesco Filippi “Mussolini ha fatto anche cose buone – Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo”
[28]https://jacobinitalia.it/austerita-e-tecnocrazia/
[29]https://www.raiplay.it/video/2020/10/1919-1922-Cento-anni-dopo-p6-La-marcia-su-Roma-a572a80a-54af-4070-8125-330760b46149.html al minuto 51:00